
A colloquio con Francesca Dego, promessa (mantenuta) del violinismo italiano
L ondra-Cervia-Ravenna-Monforte d’Alba-Londra-Siena: non è un nuovo itinerario turistico suggerito da qualche agenzia di viaggi, ma il calendario con le ultime date dei concerti di Francesca Dego. Tappa intermedia, sempre Milano, dove la Dego vive: da sola, da quando aveva 17 anni. «I miei si erano trasferiti a Milano, per permettermi di studiare al Conservatorio. Quando ho compiuto 17 anni, hanno deciso di tornare sul lago di Como. A volte, quando torno da un viaggio, mi manca un po’ la mamma che mi coccola. Quando devi fare tutto da sola, è dura». Incontro la Dego a Milano, in Conservatorio, prima di una prova con la pianista Francesca Leonardi, che è anche la sua migliore amica. Avevo già ascoltato questa bravissima (e bellissima) violinista in concerto, rimanendo incantata dal suo talento, ma anche dalla sua maturità musicale, notevole in una ragazza così giovane. Conoscerla di persona, però, mi lascia davvero sbalordita. Nonostante il talento eccezionale, la bellezza, la sua vita un po’ “speciale” – di sicuro differente da quella di tante sue coetanee – Francesca è una ragazza molto semplice, gentilissima, sorridente; risponde con estremo garbo al mio “interrogatorio” e lo fa con una proprietà di linguaggio e una consapevolezza sorprendenti. Abituata, da sempre, a una vita “singolare”, fatta di sacrifici e di rinunce ma anche di tantissime soddisfazioni, la Dego, ha avuto, dalla sua, un talento eccezionale e una passione, fortissima, scoperta fin da bambina. «Ho cominciato a studiare il violino a 3 anni perché mio padre amava suonarlo, da dilettante.
L’idea che io provassi a suonare in famiglia c’era. Mio padre mi ha insegnato le note e si è accorto subito che avevo l’orecchio assoluto. A 3 anni era un gioco per me; a 4 anni e mezzo ho iniziato ad appassionarmi, come può un bambino, ossia, per 10 minuti di fila di concentrazione. A 5 anni suonavo già un concerto di Vivaldi e a 7 ho debuttato con orchestra suonando Bach». Un’infanzia, diversa, quindi, da quella di tanti bambini, vissuta con l’acceleratore, ma senza pressioni e senza pesi eccessivi. «I miei, forse proprio in virtù del fatto che non sono musicisti, non hanno mai avuto quell’ambizione musicale che può avere un genitore con un sogno non andato a buon fine. Mi hanno sempre fatto capire che se avessi voluto suonare sul serio, mi sarei dovuta applicare duramente, ma che non mi avrebbero mai obbligata. Quando mi lamentavo mi dicevano: “Vai fuori a giocare”. Ho avuto un’infanzia normale, anche se la responsabilità di passare anche solamente due ore su uno strumento era grossa.
Alla fine, però, ero sempre io a ritornare al violino. Ho sempre avuto le idee chiarissime; non volevo fare nient’altro. All’inizio era solo un sogno da bambina, forse, ma, in modo più o meno serio, mi sono sempre applicata fin da piccola, da sola, senza nessuna costrizione». Fondamentale, in questo percorso straordinario, è stato il sostegno e l’incoraggiamento dei genitori: quando parla di loro, le brillano gli occhi. «I miei genitori sono fantastici. Mio padre [lo scrittore Giuliano Dego,ndr], per me, è sempre stato fonte d’ispirazione. L’arte in famiglia è sempre stata trattata con la più grande serietà. Conosco amici con genitori non musicisti che hanno faticato a far passare l’idea di voler fare i musicisti come professione. Mio padre da artista, anche se in un altro campo, ha sempre pensato che se avevo questo sogno non potevo non inseguirlo. Anche l’ambiente artistico in cui sono cresciuta è stato fantastico. Da piccola avevamo a cena tutti i più grandi letterati italiani. Ho molte altre passioni, tra cui naturalmente la letteratura. Leggo tantissimo, scrivo. Credo che questo aiuti ad avere una visione completa di quello che si fa: la cultura, in generale, è fondamentale anche per suonare. Mia madre è americana e mi ha insegnato presto a essere autonoma e indipendente».
Adesso, Francesca di anni ne ha compiuti 22; per l’esattezza il 17 marzo, quando l’Italia festeggiava i suoi 150 anni dall’Unità. E anche quel giorno, non era con amici davanti a una torta, ma su un palco, per un concerto. «Ci sono i pro e i contro in tutti i lavori. Ad esempio, le serate fuori con gli amici fino a tardi devo centellinarle perché di giorno devo studiare o partire per un concerto. Spesso sono sola in giro in tournée, a volte con un’orchestra straniera. Talvolta è dura, soprattutto per un giovane. È una vita abbastanza “da soli”». Eppure, le difficoltà non la scoraggiano e non l’hanno mai spaventata, nemmeno quando, a soli 17 anni, ha dovuto prendere una decisione difficile. Invitata in Israele per un concerto da Shlomo Mintz, dopo tante discussioni in famiglia, è toccato a lei decidere se partire o no. Era scoppiata la guerra con il Libano: partire era pericoloso, ma la musica, anche quella volta, ha vinto su tutto. «È stata un’esperienza incredibile. L’invito era venuto tempo prima, naturalmente; poi, era scoppiata la guerra. Ho deciso di andare lo stesso, per diverse ragioni. Conoscevo molte persone; ero già stata varie volte in Israele. L’occasione era troppo bella, per potervi rinunciare: suonare con Shlomo Mintz. È stata una delle esperienze più importanti della mia vita, dal punto di vista musicale e umano. Sono quei momenti in cui vedi anche il lato umano dell’Orchestra; il primo violoncello aveva perso la sorella due giorni prima in un bombardamento. Anche a livello etico, mi chiedevo: “Dovremmo suonare o no? È giusto e rispettoso o no?”. La risposta a questo dilemma, con questa meravigliosa musica, era stata incredibile: io piangevo sul palco. Shlomo Mintz era sempre stato uno dei miei idoli. Quando sono arrivata all’ultima nota della sinfonia concertante di Mozart, volevo non finisse più».
Vincitrice di numerosi concorsi nazionali e internazionali e, nel 2008, prima violinista italiana dal 1961 ad entrare in finale al Premio Paganini di Genova (dove si è aggiudicata il premio speciale “Enrico Costa” riservato al più giovane finalista”), Francesca si sente fortunata; oltre ai genitori, tante persone hanno creduto in lei e l’hanno sostenuta, cominciando dai suoi due maestri fondamentali: Daniele Gay e Salvatore Accardo. «Daniele Gay, per me è un secondo padre. Da lui torno ogni volta che ho un pezzo nuovo da studiare, un dubbio; oppure, ho bisogno di “consigli” prima di un concerto. Con lui studio da quando avevo 9 anni. Salvatore Accardo, invece, è stato un altro incontro importantissimo, che mi ha cambiato. Mi segue da 6 anni e con lui suono tantissima musica da camera, dal quartetto all’ottetto, con Bruno Giuranna e altri grandi. Aldilà dell’insegnamento e delle parole, da lui ho imparato moltissimo nel contatto diretto sul palcoscenico. Ha passato la vita sul palco e si vede; ha quel tipo di sicurezza, di presenza. Ti trasmette che quello è il suo posto, e ti trasmette la sua energia positiva. A maggio suoneremo di nuovo insieme a Cremona».
Quando chiedo a Francesca quali sono i suoi compositori preferiti ha un po’ di titubanza: difficile scegliere in un repertorio così bello. «Tutto il repertorio violinistico è fantastico. In questo momento ho una passione incredibile per Brahms, ma le passioni cambiano di anno in anno. E poi… Paganini: il nostro orgoglio nazionale. È così rappresentativo di quello che è il violino. Non si è arrivati a superare il violino, come concezione tecnica, dopo di lui. L’amore e il rispetto per Paganini sono d’obbligo e mi piace suonarlo, anche se mi “spaventa” sempre. Proprio ad Accardo avevo detto, una volta: “Maestro, io non ce la faccio a studiare così tanto Paganini: è troppo difficile. Ma chi ce lo fa fare a stare ore e ore su una battuta?” Lui mi ha guardato e mi ha risposto “Se non ti diverti perché lo suoni?”. Mi sono fatta un esame di coscienza e mi sono resa conto che quello che muove un violinista a spingersi, a mettersi al limite suonando quel repertorio è sicuramente la sfida, e, quindi, il divertimento nella sfida. E da lì ho iniziato a divertirmi suonando Paganini».
Nonostante l’abitudine a stare su un palco fin da piccolissima, suonare in concerto per Francesca è sempre un’emozione. «Ci sono vari tipi di emozione e questo fa in modo che alcuni la reggano e altri no. L’emozione può essere molto positiva. Io, ad esempio, suono meglio in pubblico per l’adrenalina, ma insieme all’adrenalina c’è anche la tensione, il nervosismo. Ho sempre reagito bene, fin da piccola, all’emozione; anche se i giorni e le ore precedenti sono preoccupata, quando sono sul palco mi ripeto: “Sei qui: è la tua occasione e devi dare il meglio perché poi non puoi risuonarlo di nuovo”. I concerti mi stancano moltissimo: mi prendono così tanta energia e concentrazione, che dopo sono scarica. Quando ce n’è un altro il giorno dopo, è dura. Con l’esperienza, però, s’impara a gestire l’energia, a non dare tutto sempre. O meglio, dare tutto a livello tecnico ed emotivo, ma a serbare la mente e la concentrazione, per non stancarsi troppo. Stare sul palcoscenico è istintivo: l’ho sempre amato. Dosare le forze e la concentrazione, invece, s’impara con il tempo».
Chiedo a Francesca di spiegarmi, come mai, secondo lei, i ragazzi della sua età faticano ad accostarsi alla musica classica. «Se non c’è una preparazione non può esserci amore. Qualunque ragazzo a scuola è obbligato ad avvicinarsi alla grande letteratura, all’arte visiva e, se sente nominare un libro, un quadro, si ricorda che, almeno, ne ha sentito parlare. È assurdo che questo non avvenga anche con la musica. Non si viene messi di fronte alla conoscenza e, quindi, alla scelta. Almeno, in Italia è così: si dovrebbe guardare all’estero. In Germania, in Inghilterra, per citare due Paesi, le iniziative per i giovani sono moltissime, costanti. Le sale da concerto sono piene di ragazzi. In Italia cominciano adesso delle belle iniziative per i giovani, come prezzi dei biglietti più ragionevoli, anche se il costo del biglietto, spesso è una scusa: in discoteca si spende di più. Alcuni ragazzi hanno il timore di essere giudicati se propongono di andare a un concerto di musica classica. Il paradosso è che ci sono sempre più giovani che si dedicano alla musica in maniera seria e sempre meno giovani che la ascoltano. In questo momento il livello dei giovani musicisti è altissimo: forse, non è mai stato così alto».
Le chiedo, allora, di nominarmi qualche giovane violinista che stima e di spiegarmi come si vive la competizione in musica. «Leonidas Kavakos e Janine Jansen, forse in questo momento sono i miei preferiti in assoluto: semplicemente, meravigliosi. Ma ci sono tantissimi giovani veramente bravi, come Sergey Khachatryan, Veronika Eberle, Alena Baeva. Nel mondo musicale c’è competizione, sicuramente, ma non è necessariamente negativa; a volte viene creata dagli altri e spesso c’è amicizia e rispetto tra i musicisti, anche perché c’è spazio per tutti. Il punto non è privilegiare un giovane, piuttosto di un altro: ce ne sono tantissimi bravi che avrebbero bisogno di essere aiutati». Infine, chiedo a Francesca di parlarmi del suo fedele compagno di vita: il violino Guarneri del Gesù, concessole dalla “Florian Leonhard Fine Violins” di Londra. «È un’esperienza fantastica, suonare questo strumento: è uno dei migliori violini al mondo. È un privilegio e un’emozione. Mi aiuta tantissimo. Il suono è una cosa molto personale, è vero, ma ci sono cose che un violino così ti dà. Ad esempio: la possibilità di chiedere tantissimo e di avere sempre una risposta. Mi ha dato tanto anche a livello musicale perché studiando scopro sempre cose nuove, cosa posso fare. Ringrazio Florian Leonhard che me lo presta».
Lascio andare Francesca ai suoi impegni, non prima, però, di averle confessato il mio stupore per la gentilezza, la disponibilità e, soprattutto, l’umiltà che mi ha trasmesso. E, con estremo candore mi risponde: «Beh, non avrei nessun motivo per “tirarmela”. In fondo, non faccio nulla di speciale. Qualsiasi lavoro fatto bene ha la sua dignità. Io sono stata solo fortunata perché ho potuto scegliere di seguire la mia passione».
Adriana Benignetti