È fatto così il turco Fazil Say, e il pubblico lo ha ormai capito da tempo (e financo la critica). Non c’è scampo. Prendere o lasciare.
Va bene tutto: lo snobistico (finto) scandalizzarsi dei fini e talora saccenti connaisseurs, che rifiutano con un ghigno sarcastico il suo Mozart, “non in stile” con le cadenze fitte di sberleffi e linguacce (ma è esattamente quanto si propone lui e qualcuno obietta invece che forse Wolfgang si sarebbe divertito un sacco, chissà), e l’adorazione (un po’ supina e di fatto conformista) di quelli che additano in lui il nuovo Glenn Gould: «molto meglio di Glenn Gould» proclamava taluno nell’intervallo l’altra sera al Lingotto, per il concerto che Say ha tenuto con la Prague Philharmonia diretta dal preciso e puntuale Jan Latham-Koenig.
Il quale ovviamente faticava un filino a star dietro alle intemperanze del funambolico pianista dalle dita d’acciaio. Ma se l’è cavata con un ammirevole aplomb. E dire che il programma era davvero vasto e, soprattutto, trascorreva tra epoche e stili. E ha visto impegnato l’instancabile ed iper cinetico Fazil Say per l’intera serata.
Apertura nel segno di Ravel. E subito s’è capito dove “lui” si sarebbe trovato maggiormente a suo agio. Ma certo, tra le dinoccolate allusioni jazzistiche e nei passi ritmicamente più scatenati (un «Presto» finale preso a velocità incredibile… quasi un più che Prestissimo). E il sublime «Adagio assai» con la frase «che scorre» e che tanta fatica costò a Ravel che dichiaratamente ci lavorò «sino a morirci sopra»? Beh, ecco, qui – a nostro modesto avviso – Fazil Say s’è lasciato prendere la mano, con quel suo gusto provocatorio. La provocazione in tal caso consisteva nell’indugiare, indugiare e ancora indugiare, sospiri che volevano essere sublimi, ma alla fine ingeneravano la saturazione, e quando appare quella modulazione mirifica a mi maggiore, poco prima dei protratti trilli (che Say ha eseguito con curiosi e improvvisi crescendo, molto ad libitum), il tutto s’è alquanto stemperato rispetto alle esecuzioni per così dire d’ordinanza.
Il suo è un modo di suonare lontanissimo dal controllo del suono assoluto – per dire – di una Martha Argerich, un suonare (in apparenza) istintivo, verrebbe da dire “di pancia”, (absit iniuria verbis) in realtà studiato, ci mancherebbe. Ma è fatto così, prendere o lasciare. E condiziona anche il modo di valutarlo: non ha nemmeno senso parlare di tocco né di pedale (tiene costantemente il piede destro sollevato, innescando – immaginiamo – una tensione pazzesca del corpo intero e si sente dall’attacco alla tastiera), saltano tutti i parametri e molto altro, ma non i nervi. E in ciò risiede il fascino (per taluni il limite) di tale pianista: genio o provocatore, al pubblico la scelta delle posizioni intermedie tra i due estremi della forbice. Certo le sue cadenze per il mozartiano Concerto K 467, quello che s’inizia coi passi di Leporello e contiene il tempo lento forse più celebre, con quel pizzicato e quel pulsare da aria pura di “alta quota”, sono a loro modo fascinose: quella dell’ultimo tempo, soprattutto, in apertura tutta carillons eterei e finto ingenui, poi botte da orbi, spregiudicatamente dissacranti. e il finale, nevrotico e marionettistico: tutto da gustare, o da rifiutare.
A conti fatti dove forse lo abbiamo maggiormente ammirato è stato nella gershwiniana Rhapsody in Blue, il pezzo dove il suo suonare davvero fuori degli schemi pare dispiegarsi con maggior naturalezza: sarà bene intendersi, anche qui non mancano le curiose prese di posizione, fraseggi specialissimi, indugi incredibili, lentezze da lumacone sornione e per contro velocità supersoniche per altri passi (ma sono giochini pericolosi che alla lunga stremano anche il pubblico più entusiasta), tutto intenzionalmente esasperato. Per inciso, l’orchestra ha toccato vertici di brillantezza notevole e s’è fatta assai apprezzare. Come compositore Fazil Say affascina forse un po’ meno, e la sua pur gradevole Silk Road, vero e proprio concerto per pianoforte e orchestra, dopo la sorpresa iniziale di sonorità inconsuete ed effetti timbrici pur gradevoli, va poi scorrendo su binari abbastanza prevedibili, pur facendosi (moderatamente) apprezzare per la relativa concisione (solo relativa, a dire il vero).
Così come piacevolmente prevedibile è stato il secondo bis (ancora suoni ad imitare un sitar, con la palma delle mani a stoppare le corde). E il primo bis? Una personalissima rielaborazione di Summertime, questa sì geniale davvero (forse la cosa migliore della serata, anzi sì, senza dubbio). Senso della forma notevole, una tecnica incredibile posta al servizio del divertissement, fantasia nel variare e inoltre (qui sì, detto con sincerità assoluta e senza ironia alcuna) una grande raffinatezza armonica. Applausi da standing ovation. E il pubblico diviso. Ma per lo più assai divertito.
Attilio Piovano