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I volti di una Biennale eclettica e giovane negli ultimi due giorni di programmazione del Festival veneziano: i giovani erano, innanzitutto, “les italiens” dell’Ircam, l’istituto parigino all’avanguardia della musica elettronica che con Biennale Musica e con il suo direttore artistico Luca Francesconi ha avuto in questi anni un rapporto privilegiato.
Quest’anno la Biennale ospitava concerti e laboratori di studio per giovani compositori: e venerdì a Palazzo Pisani era in programma la prima esecuzione italiana di pagine per elettronica e strumento solista di Daniele Ghisi, Andrea Agostini, Eric Maestri e Francesca Verunelli: proprio la pagina dell’unica donna del gruppo era quella più convincente e decisamente più aplaudita, con calore e entusiasmo per Interno rosso con figure II per fisarmonica ed elettronica: una fisarmonica di ghiaccio e di pietra, con punte di virtuosismo e un’esecuzione drammatica e intensa grazie anche alla bravura del solista Anthony Millet.
Eclettico, in quanto voce di quattro (più uno) autori, era il lavoro teatrale presentato anch’esso in prima italiana la sera stessa: commissione della Biennale con Musik der Jahrunderte Stuttgart e Musicadhoy Madrid, Geblendet (Blindet) era un lavoro di teatro musicale in cinques quadri al cui centro erano incastonate le 6 Bagatelle per quartetto d’archi di Anton Webern. Le parole di Thomas Bernhard (apologhi fulminanti, carichi di un realismo paradossale ed ineluttabile), le superbe voci del controtenore Daniel Gloger e della voce bianca Vincent Frisch e quella dell’attore Christian Bruckner, assieme all’ottimo Quartetto Diotima, erano gli ingredienti con cui erano chiamati a misurarsi i compositori Michael Bell, Mischa Kaser, Manuel Hidalgo e Filippo Perocco: diversi approcci per una materia che non dava spazio al sentimentalismo ma che piuttosto chiamava a misurarsi con la dimensione dell’incomunicabilità e della solitudine. Per Bell le voci erano astratte linee geometriche destinate ad incrociarsi e a trovare morbidezza e intesa (ma nella distanza) solo nelle frammentarie citazioni dalla Lakmè di Delibes: una partitura colorata dall’elettronica e particolarmente avvincente nei giochi abili di fulminei climax (veicolati anche dai giochi di luce) ed esplosioni di suono, ma straniante nella trasmissione teatrale del testo letterario. Ben più calibrata sull’unità dei brevi testi di Bernhard, e per questo particolarmente godibile e fruibile, era il quadro di Mischa Kaser, che dopo un iniziale “delirio vocale” per l’ottimo controtenore, era giocato su diversi registri e sul tema del doppio e dello specchio. Particolarmente interessante la realizzazione di Filippo Perocco, che su un inquietante tappeto di elettronica imbastiva un unico racconto, dilatandone allo spasimo la recitazione, all’inizio quasi scarnificata nella parola mescolta con il rumore.
Eclettismo ma (soprattutto) virtuosismo: l’ultimo “concerto” nel senso più tradizionale del termine che la Biennale Musica offre al suo pubblico è quello dell’Ictus Ensemble di scena al Teatro Le Tese nel pomeriggio di sabato. Ensemble variabile, dalla sola chitarra elettrica al trio d’archi, dalla voce sola all’ensemble con elettronica. La chitarra (solista Tom Pauwels) restituisce le ossessioni ripetitive di Fausto Romitelli e del suo Trash Tv Trance, il trio d’archi esegue superbamente Ikhoor di Iannis Xenakis (partitura di impatto drammatica con sprazzi di calma elegia), la voce del flautista del gruppo, Michael Schmid, è protagonista nei melologhi di Partch, trascritti per pianoforte microtonale e chitarra microtonale accanto alla voce che muove in un recitativo dalle tinte gigioneggianti e strappa applausi. Partiture interessantissime quelle di Eva Reiter (anche esecutrice al flauto Paetzold) e Hiraki Kiyama, ma la palma dell’entusiasmo se l’accaparra l’esecuzione di estratti dell’Ursonate di Schwitters da parte di Michael Schmid: dieci minuti di totale follia vocale che restituisce con assoluto virtuosismo la mitragliata di significanti senza significati di una partitura che sentire eseguita dal vivo è un vero evento. Ottimo Michael Schmid, il cui nome sul programma di sala appare, incomprensibilmente, solo come flautista e non come attore.

Eclettismo fino alla fine, anche la sera, nella pur macchinosa trasferta all’Isola di San Michele. A Luca Francesconi piace arricchire il Festival di eventi dal sapore anche popolare, che attirino pubblico diverso da quello consueto dei concerti in luoghi altrettanto poco consueti al grande pubblico: lo scorso anno l’idea, felicissima, cadde sul Palazzo del Conservatorio con un labirintico spettacolo, fatto di diversi numeri inanellati lungo scaloni e sale del palazzo, replicato per tre sere di fila e visto da centinaia di persone. Quest’anno la scelta è andata all’Isola di San Michele e ad un omaggio a Strawinsky: dai “Tre pezzi per clarinetto” davanti alla tomba del compositore, a esecuzioni verdiane della Banda di Maser nel Chiostro Grande di San Michele, dall’Orchestra La Fenice con Nono e Strawinsky nella Chiesa di San Michele a Guillaume de Machaut nella Cappella Emiliani. Accurata e suggestiva la scelta delle musiche, di pregio le esecuzioni, seppur molto poco godibili come spesso avviene in contesti “atipici” di performance. Il pubblico folto, richiamato dall’evento fortemente simbolico (avviato da una “vogata rituale” all’Arsenale), ha seguito l’itinerario del percorso da un momento musicale all’altro: percorso svolto non sempre compostamente, con frenesia di fotografie e addirittura accalcamenti attorno e (purtroppo) sopra le tombe. Chi ama il Cimitero di San Michele forse ha visto l’evento come un’invasione piuttosto irrituale che rituale. E chi ha fatto davvero festa, secondo noi, sono state le zanzare, che tutta quella gente, in una calda sera di fine estate, non l’avevano mai vista.
Emilia Campagna