
E ora non cominciamo a dire che la “generazione Jobs” non c’era prima dell’arrivo e della scomparsa del guru di Apple, ovvero dello stesso Jobs. Un paradosso, ovvio, ma fino a un certo punto. I giovani all’arrembaggio che prendono a morsi la vita esistono da quando c’è la vita. Gran bel messaggio “siate folli, siate affamati” che il genio del mercato informatico affidò, nel giugno del 2005, ai neolaureati di Stanford. Ma la dimostrazione di come tanti, tantissimi giovani scalino – non di rado a mani nude – il loro avvenire è sotto gli occhi di tutti, giorno dopo giorno. Da sempre.
Prendiamo le nuove leve tra strumentisti, cantanti, compositori, direttori d’orchestra e quant’altro, sediamoci con alcuni al bar per un caffè e quattro chiacchiere sulla loro formazione. Come minimo, dopo qualche scambio, può venire il mal di testa. Il motivo è presto detto (anzi, capito). Giorgio – nome di fantasia – è diplomato in pianoforte e composizione, si è perfezionato a Vienna col professor Kristofer Nem (non esiste, ma per dire). Insegna qua e là, cioè è precario, fa un concerto ogni tanto, sta scrivendo un libro. Cristina – mai vista veramente – soprano, canta dall’età di sei anni; tutte le dicevano “bravissima, devi continuare”, ha frequentato il Conservatorio, uscita col massimo dei voti. Una volta l’hanno chiamata al Regio di Torino, per vivere dà lezioni ai bimbi. Infine c’è Gabriella che suona l’arpa ed è una fuoriclasse, gli applausi non le mancano, spesso dice: “Sono senza soldi”. Domanda: che prospettive hanno?
Storie italiane, quante se ne vogliono, ragazzi preparati, che hanno sposato gli strumenti nell’infanzia, che dopo i diplomi e i master oltreconfine (spesso pagati coi sacrifici dei genitori non tutti nababbi) si sono laureati a pieni voti. Sono un esercito, cercano di volare alto. Gli Icaro non si contano. E il “siate folli, siate affamati” a volte più che uno sprone diventa una profezia, magari a breve termine. Poi qualcuno si stupisce per la fuga dei cervelli all’estero, dove – a onor del vero – non è più un Eldorado, ma c’è più movimento. Dinamismo. Proprio così: dipende da dove nasci.
Se abiti in un Paese dove la musica nelle famiglie è come il pane (magari i genitori suonano con i figli), nelle scuole è in primo piano (gli alunni si esercitano in orchestra), nelle strade si fa ovunque (senza divieti e multe) e nei luoghi deputati ai concerti c’è anche al mattino, allora è un conto. Se vivi in una nazione in cui, in caso di difficoltà, i primi tagli sono riservati alla cultura, beh, è un’altra faccenda. Si dirà: le solite litanie-disfattismi-pessimismi… I dati che di tanto in tanto vengono fatti circolare tendono a dimostrare che un certo fuggi fuggi c’è. Per carità, palla al centro, meglio confrontarsi. Un tema su cui discutere: la caccia e l’eliminazione degli sprechi.
E sia, chi può dire che buttare i soldi dalla finestra è cosa buona (et) giusta. Dopo la cura da cavallo per gli enti & compagnia bella, per favore però: si pensi allo sviluppo della musica – con tutti quelli che ci lavorano – all’educazione, al (nostro) futuro.
Luca Pavanel
© Riproduzione riservata
Caro Pavanel, d’accordo con tutto, ma il “si pensi allo sviluppo della musica”. Chi deve pensarci? In Italia non fa niente nessuno, se non togliere e tagliare. Non riescono neanche a fare il decreto sviluppo!
La musica è la più grande allegoria possibile della creazione. Antichissime e famose cosmogonie descrivono la realtà precedente alla creazione come una notte sonora in cui tutto è vibrazione musicale e la materia non è ancora solida. L’atto sonoro originario, cioè la creazione, sarebbe un passaggio graduale a oggetti sempre più solidi e silenziosi. La musica, ricondotta alla sua essenza, ha connessioni antichissime con la magia, evidenzia uno stretto legame tra parola e suono, inoltre i suoni vocali e strumentali hanno una evidente funzione simbolica, e molto studio ancora richiederebbe la struttura linguistica di ritmo-melodia-armonia. Ma temo che questi argomenti, fondamentali per lo sviluppo non solo del talento musicale, ma della personalità in genere, non abbiano un “vero” ritorno economico. Quindi non mi stupisce che nulla di cio’ venga insegnato già nei primi anni di scuola, e che i nostri talenti siano spesso incompresi e precari. D’altronde la cultura del denaro appartiene a coloro che, ben lungi da sentire una minima vocazione al mecenatismo, sono divenuti anch’essi oggetti di materia muta e silente, benché rumorosa.