Secondo appuntamento di stagione, domenica 6 novembre, per i concerti di Lingotto Musica, presso l’Auditorium ‘Agnelli’ del Lingotto, a Torino. Solista (e direttore) di lusso il navigato Pinchas Zukerman alla guida dell’affiatata Royal Philarmonic Orchestra della quale dal 2008 è direttore ospite principale.
di Attilio Piovano
Zukerman ha deciso di aprire con l’Ouverture dalle «Nozze di Figaro» e subito si sono potute ammirare le innegabili qualità della RPO: bel suono, ottime prime parti (salvo qualche défaillance del primo corno, nel corso dell’intera serata), compattezza, fraseggi, cura dei dettagli e molto altro ancora. Zukerman – immaginiamo intenzionalmente – non ha impresso alla sublime pagina quel fuoco divorante, quella verve irresistibile che ne costituisce il motivo di singolare appeal: ci saremmo dunque aspettati qualche guizzo in più, maggior nervosismo ed eccitazione sonora, e magari anche una linea di metronomo in più.
È emersa scintillante e scorrevole, questo sì, con sonorità appropriate e corretta lettura stilistica, ma senza quel quid di magnetismo che talora innalza la temperatura emotiva del brano a livelli davvero stratosferici regalando emozioni indicibili, e questo non è accaduto, occorre ammetterlo. Tutto era molto composto ed equilibrato (fin troppo). E compostezza è forse la giusta parola chiave per valutare l’intera serata nel suo complesso. Anche nell’affrontare (da solista) il mozartiano «Concerto in la maggiore K 219», sicuramente il più celebre della serie composta ancora a Salisburgo per l’italiano Brunetti, ecco che Zukerman ha puntato su sobria linearità. Apprezzata la curva del primo tempo e bene la cantabilità dell’Adagio; suono cristallino e nitido, il tutto sempre circonfuso ad un’aura arcadica, settecentesca. È così che Zukerman intende la pagina. Sicché anche il celeberrimo passo ungherese o turchesco (che è la stessa cosa) contenuto nel Rondò finale, è risultato in qualche modo addomesticato, privato in parte di quella vigorosa intemperanza che altri, a torto o a ragione, gli conferiscono. La tecnica di Zukerman è sempre di alto livello (e qualche occasionale imprecisione di intonazione o qualche lieve scollamento ritmico specie nel finale non erano tali da offuscare la limpidità della performance), il suono di grande purezza e buona l’intesa con la compagine.
Compagine che ha poi affrontato sotto la guida di Zukerman, ora armato di bacchetta d’ordinanza, la spumeggiante ed ultra esuberante «Settima» di Beethoven. Ancora compostezza e sobrietà sono le parole che più si attagliano alla visione di Zukerman. Che in apertura è parso molto guardingo; s’è lasciato andare ed ha sbrigliato l’energia che occorre alla pagina, imbevuta di umori di danza (per dirla con l’abusata visione wagneriana che parlava appunto di apoteosi della danza, si sa) solamente nello Scherzo, possente ed energetico, con quei fieri contrasti di sonorità e quelle frasi accattivanti ed ebbre, a conti fatti la cosa migliore dell’intera serata, così pure dicasi del Finale dall’insistente figurazione ritmica. Ci ha lasciato invece un poco perplessi l’Allegretto, dalla regolare pulsazione ritmica, per nulla centellinato, né sul piano ritmico (troppo veloce, un po’ ‘tirato via’ come si suol dire) né dal punto di vista dinamico. Il passo ad esempio in cui occorre trascorrere dal pianissimo al fortissimo nel giro di sole quattro misure (per i maniaci della filologia è il tratto che ha inizio a battuta 210), è stato appiattito da una dinamica che partiva dal mezzo forte, col risultato di annacquare alquanto ciò che Beethoven aveva previsto vanificandone l’effetto a sorpesa che alla prima esecuzione ha rischiato di strappare applausi a scena aperta.
Consensi convinti e, a onor del vero, insistenti, tant’è che Zukerman è tornato sul podio per dirigere ancora un bis, l’Ouverture «Le creature di Prometeo». E qui sì che l’entusiasmo e l’emozione sono state grandi: per la bellezza del suono, per l’allure olimpica di quel do maggiore che si scioglie in una corsa sfrenata non lontano dallo humour della Prima Sinfonia (o della Quarta), e poi i flauti argentini e gli scoppi a piena orchestra, con tanto di rombare di timpano e gli spostamenti di accento, certi passaggi finto-accigliati, ma per burla e i toni già quasi pre rossiniani. Tutte cose che Zukerman ha colto davvero al meglio. E infatti il bis è stato salutato da un vero trionfo.
Attilio Piovano