Al Lingotto di Torino Daniele Gatti dirige l’ultima sinfonia del compositore nella ricostruzione del musicologo britannico Derrick Cooke
di Attilio Piovano
Felice conclusione dell’anno mahleriano, ieri sera – 12 dicembre – presso l’Auditorium ‘G. Agnelli’ del Lingotto a Torino, con il concerto per il cartellone dell’Associazione Lingotto Musica, dell’Orchestre National de France diretta da Daniele Gatti: in programma la ‘ricostruita’ «Decima Sinfonia» della quale – si sa – l’autore fece in tempo a completare solamente il movimento iniziale, un vasto ed effusivo «Adagio» costellato di quei languori, quelle estenuazioni, quella disperata aspirazione al canto, quel mix di nostalgia, di Sensucht tardo romantica e di squarci sull’abisso della modernità che di Mahler sono la vera e propria firma. Mahler festeggiatissimo in ogni dove in questo 2011. A Torino, poi, grazie a un intelligente e sagace ‘raccordo’ tra le varie istituzioni, s’è avuta l’opportunità di ascoltare l’integrale del lascito sinfonico ‘spalmato’, come usa dire oggi, tra i concerti prodotti per l’appunto da Lingotto Musica, quelli dell’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai, le serate di MiTo e molto altro ancora: per dire, associazioni come l’Unione Musicale che per loro natura propongono il grande repertorio cameristico, non hanno certo disdegnato l’appuntamento offrendo succulenti ed apprezzati contributi sul versante liederistico.
Negli altri tempi si ammira il lavoro certosino di Cooke che verosimilmente doveva conoscere a fondo il modo di orchestrare di Mahler
Sicché ascoltare ieri sera la «Decima» è stato un vero e proprio ideale coronamento. Pagina non facile, della quale il solo «Adagio» è di normale circolazione, mentre l’intera «Sinfonia», nella ricostruzione del musicologo britannico Derrick Cooke, sulla base di pur copiosi appunti ed abbozzi, stenta ad essere accettata in sede esecutiva. Due le scuole di pensiero: i puristi che ritengono l’operazione una sorta di forzatura indebita, quasi affronto a Mahler (‘come l’avrebbe orchestrata davvero’? Si domandano. E ancora: ‘Chissà se avrebbe mutato l’ordine dei movimenti o se forse avrebbe cassato qualcosa…’) tutte domande pur legittimne, ma ovviamente destinate a restare senza risposta ed anche a dire il vero un po’ capziose o ingenue se si preferisce, che è lo stesso. I legittimisti approvano invece ed incoraggiano l’operazione Cooke (di grande serietà professionale, occorre ammetterlo), operazione in parte osteggiata da Alma (dal suo punto di vista, comprensibilmente), per onestà intellettuale merita rammentarlo. Cooke, peraltro, si riferì sempre al proprio lavoro, con apprezzabile e sincero understatement tipicamente british, in termini di performing version: insomma non ebbe la presuntuosa pretesa di aver ‘completato’ quanto di fatto è incompletabile.
Per parte nostra, al pari del pubblico che affollava la sala di via Nizza ieri sera, ci siamo accostati all’ascolto, come già in altre occasioni, con deferente commozione cercando di astrarre da considerazioni storiche, musicologiche e via dicendo, abbandonandoci all’onda delle emozioni che la partitura può regalare. E sono molte occorre riconoscerlo. A partire, ça va sans dire, dal monumentale «Adagio» d’esordio che qua e là tristaneggia, certo, ma va ben oltre, sfiorando in qualche passo l’atonalismo ovvero il riverbero inquietante della modernità del ‘900, il secolo che avrebbe conosciuto la tragedia, la catastrofe di ben due Guerre Mondiali, risparmiate al caro Mahler che in quello scorcio del 1910, nel rifugio della sua Hütte a Dobbiaco, aveva a che fare ‘solo’ con le proprie personali catastrofi, i dissapori e le amarezze professionali, prima con l’Opera di Vienna, poi per la tormentata esecuzione monacense dell’«Ottava», e ancora la crisi matrimoniale con la bellissima e volubile Alma e la malattia, incombente ed inesorabile di cui aveva piena consapevolezza), tutti elementi riversati in questa stupenda confessione intima che è la «Decima»: che pure si pone, per la sua stimmung specialissima, come il preludio alle tragedie epocali del XX secolo, al tempo stesso con uno sguardo nostalgico, ma lucidamente disincantato, verso il passato, il «caro pio dolce passato», per dirla con Micol Finzi Contini.
Daniele Gatti ha ben inteso tutto questo ed ha conferito all’«Adagio» lo spessore del dramma, tutta la profondità che occorre, cesellando e lavorando di fino, ma anche conferendo quel respiro cosmico alle frasi cantabili che puntano in alto e danno il colpo d’ala che ci si attende. L’Orchestre National de France è un’ottima compagine, passabilmente omogenea nelle sue sezioni, con valide prime parti: buoni i fiati (nonostante qualche inesattezza qua e là), buoni gli archi che pure – come spesso accade con le orchestre francesi – non hanno la pasta, il colore, il timbro delle orchestre austro-tedesche o statunitensi (detto senza snobismi intellettuali, senza infingimenti, ma per amore di verità), ciò nonostante, Gatti è riuscito efficacemente ad ottenere nei cantabili un suono autenticamente ‘mahleriano’. E poi quei collassi, quegli urti terrificanti e dissonanti, al limite del cluster cacofonico (verso la fine del movimento d’esordio che pure riconquista in chiusura la cantabilità, ma non è più la stessa cosa), elementi che rivelano la più impressionante, visionaria, quasi profetica e chiaroveggente intuizione mahleriana della modernità. Insomma le radici del ‘900 sono davvero qui.
Gatti è riuscito efficacemente ad ottenere nei cantabili un suono autenticamente ‘mahleriano’
Negli altri tempi si ammira il lavoro certosino di Cooke che verosimilmente doveva conoscere a fondo il modo di orchestrare di Mahler, e conseguentemente ha fatto un lavoro eccellente, potendo contare – lo si diceva – su ampi squarci e non già semplici schizzi. Ciò nonostante l’impressione di frammentarietà (palpabile specie nel «Finale») resta innegabile. Ha ben ragione Pestelli laddove afferma: «Cosa sarebbero diventate queste tracce nelle mani del compositore è impossibile indovinare» dacché «qui tutto è ancora in uno stato magmatico, in una fase precedente la condensazione compositiva». Pure, i due «Scherzi» – segnatamente il primo – con quell’alternanza di passaggi rudi, energici e struggente lirismo, frammenti cantabili di una dolcezza infinita, pronti però a virare in ghigno sinistro, con un semplice mutare di armonia in virtù d’un mutato ritmo o d’un tocco coloristico, regalano istanti mozzafiato. E ancora: le riconoscibili reminiscenze (se non proprio citazioni tematiche) dalle precedenti «Sinfonie», preziosità timbriche, come il funereo pulsare della grancassa coperta nel «Finale» (ricordo del funerale di un pompiere newyorkese), «Finale» segnato da lirismo espanso, ma anche da inesorabili lacerazioni; tutti aspetti ben raccolti dalla lettura di Gatti che ha saputo coagulare in maniera più che eccellente quel quid di sparso, frammentario – lo si diceva – talora di scabro, che della «Decima» resta il dato di fondo.
Gli applausi copiosi e convinti, a chiusura di un’esecuzione di buon livello sono stati il commosso commiato torinese al genio mahleriano, un composto e sobrio Lebewohl (la parola che in più d’un caso figura sui manoscritti mahleriani), la sobrietà sabauda dinanzi alla genialità dell’autore che forse più di ogni altro seppe intuire, come oscuri presagi, il tragico corso del secolo di cui visse solamente il primo decennio, esprimendo con la sua musica l’inesprimibile, ciò che abbiamo dentro e che le parole si rivelano inadeguate a significare.
Grazie Gustav per essere trascorso su questa terra lasciandoci il segno della tua interiorità: ci piace chiudere gli occhi e pensarti tuttora nella Hütte di Dobbiaco o in quell’altra di Maiernnig sul Wörtherseee, tra i suoni di natura che tanto amavi, immerso nel silenzio attorno a propiziare le creazioni sublimi del tuo spirito tormentato, in bilico tra amore ed angoscia, tra tenerezza indicibile e inconfessabili presagi di morte. Lebewohl. Addio.
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