La lezione del compositore palermitano presso la Statale di Milano ha toccato alcuni nervi scoperti riguardanti godimento estetico ed aspettative degli ascoltatori
di Francesco Fusaro
La vita e la morte. La ciclicità dell’esistente. Questo il tema proposto da Salvatore Sciarrino nella propria affascinante lettura di uno dei capolvari beethoveniani, il Quartetto per archi n. 14 in Do diesis magg. op. 131 (completato nel 1826).
Fresco del lusinghiero e prestigioso premio Frontiere della Conoscenza in Musica Contemporanea assegnatoli dalla Fondazione spagnola BBVA, Salvatore Sciarrino, classe 1947, è un grande irregolare nel mondo della musica contemporanea: bambino prodigio, inizia a comporre da autodidatta a soli dodici anni (il suo primo concerto è datato 1962). Questa libertà rispetto al percorso accademico tradizionale è stata sottolineata dallo stesso compositore palermitano (oggi residente in Umbria) in apertura della lezione tenuta quest’oggi presso l’Università degli Studi di Milano nel corso di una serie di incontri evocativamente chiamato Compositori in analisi, di cui abbiamo già dato notizia. Sciarrino racconta infatti delle prime esperienze con la musica classica grazie alla ricca discoteca di famiglia e la proibizione da parte del fratello maggiore di ascoltare alcuni particolari dischi: proibizione che ovviamente sortì nel giovane artista effetto del tutto opposto. Fra questi anche l’op. 131 di Beethoven che diverrà una delle opere alle quali egli si sentirà sempre legato. Anche per motivi personali: il compositore ha infatti rievocato l’episodio del furto di alcuni appunti per una nuova composizione e del sentimento di violazione suscitato dall’episodio, oltre alla maggiore difficoltà di poter ricostruire la forma musicale che aveva elaborato per quasi un anno e che non sarebbe riuscito a ricostruire. Come ebbe modo di ricordargli successivamente Maurizio Pollini (per il quale Sciarrino ha scritto un atteso Carnaval per cinque voci, solo di pianoforte e strumenti, in programma il prossimo 30 agosto al Festival di Lucerna) anche Beethoven era convinto di aver perso gli appunti di questo famoso Quartetto; la qual cosa lo aveva ovviamente gettato in uno stato di altrettale angoscia.
Oltre al dato biografico, interessante per capire le proiezioni psicologiche che un compositore può effettuare sulle opere dei colleghi e che rappresentano il concept dietro al ciclo di incontri organizzato da Marilena Laterza, Salvatore Sciarrino ha saputo dimostrare, durante la lettura beethoveniana, doti umane, culturali ed emotive notevoli. Non si può infatti non essere d’accordo con lui quando afferma che l’analisi di un’opera d’arte deve stare attenta, come per una bambola smontata pezzo a pezzo per capirne il funzionamento, a non rompere l’incantesimo che si instaura nell’atto del godimento.
Per Sciarrino l’op. 131 è una composizione di frontiera: essa infrange la banalità che è insita nel concetto di tradizione (quando imbottigliamo un’idea per archiviarla essa diventa lettera morta, non serve più al presente) poiché ci presenta una nuova forma (l’uso di più movimenti rispetto ai quattro tradizionali nel quartetto) che inquieta le nostre aspettative. Ecco dunque un altro aspetto sottolineato più volte nel corso dell’incontro: trovarsi di fronte a qualcosa che non si conosce è inquietante (come poteva essere l’ascolto di quei dischi proibiti nella discoteca di famiglia) ma allo stesso tempo è il motivo per cui noi ci interessiamo all’arte. Infatti, secondo il compositore palermitano, la sopravvivenza che deriva dal rimanere entro i confini del noto non è il modo per godere della vita, ma il suo contrario. Ecco perché siamo chiamati ad una continua opera di verifica delle nostre idee: un altro celebre compositore qual è Mozart non è meno inquietante di Beethoven, ma la sua carica di innovatore è stata disinnescata per comodità, per permettere di creare una rassicurante tradizione. Ma, ci ricorda ancora Sciarrino, la camomilla si beve per andare a dormire. Per svegliarsi al mattino c’è bisogno di ben altro. Questo per ribadire la necessità di battere i sentieri che non ci sono stati indicati.
La musica sveglia il tempo, dice Barenboim. La musica sveglia la nostra coscienza, sembra volerci dire Sciarrino con queste preziose parole, mentre le note del capolavoro beethoveniano scorrono dentro la nostra coscienza per lasciarvi un segno profondo ed indelebile.
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Putroppo ho saputo solo ora di questo incontro Mi piacerebbe molto poterne ascoltare una registrazione.