Al Regio di Torino il tutto esaurito per l’opera di Puccini: regia di forte impatto
di Attilio Piovano
Una Butterfly davvero speciale quella di Damiano Michieletto in scena il 21 febbraio al Regio di Torino, per quattro sole recite (il tutto esaurito è previsto anche per il 23, 25 e 28): lo scorso anno ebbe un successo a dir poco enorme, di critica e di pubblico sicché molto opportunamente il Regio la ripropone entro il cartellone di questo 2011/12. Ci perdonino i pucciniani doc (alla cui congrega, peraltro, ci onoriamo di appartenere), se per una volta abbiamo posto in prima battuta il nome del regista (la ripresa è di Roberto Pizzuto), perché questa è la ‘sua’ Butterfly: un regista – occorre ammetterlo – tra i più fantasiosi e, verrebbe da dire, geniali, in attività sulle scene internazionali. Sicché merita soffermarsi adeguatamente sulla sua ‘operazione culturale’ – perché di questo si tratta – condotta sull’immortale tragedia giapponese di Puccini: un vero e proprio saggio di regia, il suo, intelligente, coerente e coinvolgente con momenti indimenticabili e tantissime idee.
Niente Giappone pseudo Liberty proto novecentesco, niente lacche e porcellane, niente casetta sulla collina circondata da fiori olezzanti, ma al contrario la degradata periferia urbana di una popolosa e caotica città asiatica col suo conflitto tra «la povertà del mito ed il benessere»
L’assunto di Michieletto è di fatto la modernità drammaturgica dell’opera, più ancora, la tragica e sconcertante attualità della tematica affrontata. E così è. Non un vero matrimonio, quello della geisha quindicenne Cio-cio-san ribattezzata Butterfly con nome anglofono, bensì una «compravendita». E sorprende non poco riscontare quanto i versi della premiata ditta Illica&Giacosa aderiscano alle scelte registiche controcorrente poste in atto («Sono in questo paese elastici del par case e contratti», «così mi sposo all’uso giapponese per novecentonovantanove anni. Salvo prosciogliermi ogni mese»; e ancora «la sposa: sol cento yen» e via citando). Michieletto – nella sua nota di regia pubblicata in locandina – non fa mistero di aver inteso il plot ‘leggendolo’ in chiave di quello che oggi si chiama turismo sessuale. Del resto i versi di Illica e Giacosa lo dicono espressamente, laddove Pinkerton, rispondendo al brindisi del console Sharpless (ottimamente impersonato dal baritono Domenico Balzani), leva il bicchiere «al giorno in cui mi sposerò con vere nozze, a una vera sposa… americana». Ovvero quando Pinkerton – come sottolinea Michieletto – «non ha nessun problema ad ammettere di essere disposto per soddisfare i suoi desideri sessuali ad usare la violenza fisica» («Di rincorrerla furor m’assale, se pure infrangerne dovessi l’ale»). Insomma non c’è dubbio: per il luogotenente della cannoniera Lincoln della Marina Usa Benjamin Franklin Pinkerton, la piccola donna è un gingillo erotico e nulla più. («Con moti di scoiattolo i nodi allenta e scioglie, pensare che quel giocattolo è mia moglie»).
E allora – coerentemente – nulla di oleografico in questo spettacolo con le scene di Paolo Fantin, niente Giappone pseudo Liberty proto novecentesco, niente lacche e porcellane, niente casetta sulla collina circondata da fiori olezzanti, ma al contrario la degradata periferia urbana di una popolosa e caotica città asiatica col suo conflitto tra «la povertà del mito ed il benessere», falsi idoli dell’Occidente, cartelloni pubblicitari con ammiccanti immagini di porno shop, fast food, neon invasivi e volgari, scritte multi etniche in giapponese, cinese e thailandese, un’anonima scalinata metallica, clima opprimente e pare perfino di coglierne il lezzo maleodorante, tra immondizie, fritture e umanità promiscua. Al centro della scena un parallelepipedo in plexiglas, con le pareti scorrevoli (unica concessione alla tradizione orientale), il suo rifugio, ma al tempo stesso la sua prigione, di donna vittima, condannata ad essere venduta, usata e riciclata sul mercato (laddove verrà proposta al ricco Yamadori: «Conobbi la ricchezza, ma il turbine rovescia le querce più robuste… e abbiam fatto la ghesha per sostentarci»). Una gabbia la sua, dove non a caso vanno e vengono pin up, o più esplicitamente giovanissime prostitute in sandali volgari e minigonne (gli abiti moderni e policromi sono di Carla Teti, niente kimoni; le luci crude, come l’intera ambientazione, di Marco Filibeck).
Regia di forte impatto, quella di Michieletto, fin dalle scene iniziali, dove è palpabile il desiderio di Pinkerton di affrettare il più possibile i tempi: coglie bene lo scontro tra due mondi, due mentalità, la voracità consumistica occidentale ed i tempi lunghi dell’universo orientale. E allora, dopo che Pinkerton è giunto a bordo di un’auto dagli aggressivi fari accecanti, fin sulla soglia della casa di Cio-cio-san, ecco che, con la complicità del sensale-tamarro Goro (cinico, spaccone e spregiudicato, con tanto di ray ban e coda di cavallo e un che di ripugnante nel suo cinismo incline solo al denaro, lo disimpegna ottimamente Gregory Bonfatti), si giunge al momento del rito che non ha nulla di religioso, pare anzi una scena di mercato, sbrigativo, gestito come un set televisivo di bassa lega, con applausi innescati da Goro stesso, regista con microfono in mano, fotografo ‘ufficiale’ e quant’altro. Poi l’apparizione fatalistica dello zio bonzo (l’autorevole Luciano Montanaro) e l’anatema sulla ragazza rinnegata ormai irreparabilmente, sottolineata da uno dei passi più impressionanti concepiti da Puccini.
Pinkerton, arrogante e volgare, ormai prevedibilmente ubriaco, getta all’aria le suppellettili cacciando via tutti («in casa mia niente baccano e niente bonzeria»). Poi la scena che chiude il primo atto: a qualcuno è parsa strana, perfino bizzarra l’idea di far cantare (e spogliare dall’obi bianco) Cio-cio-san sul tetto della casetta in plexiglas, come protesa sulla notte piena di fragranze e di luci remote e puntiformi, mentre Pinkerton è di sotto. E invece funziona bene: rende conto dei due piani psicologici, l’uomo che mira solo all’amplesso e la quindicenne sognante e timida. La bella e vocalmente valida Raffaella Angeletti, ha forse in tal caso indugiato un po’ troppo sul versante ‘sciantosa’ con ammiccamenti di gambe, in parte vanificando l’ingenuità del personaggio, ma è piccolo neo entro uno spettacolo di grande efficacia. Il suggello alla prima parte, la brutale violenza di Pinkerton che le si avventa addosso, senza lasciare adito a dubbi.
L’eccellente tenore Massimiliano Pisapia dalla dizione nitida e cristallina ha dato corpo ad un Pinkerton sfrontato a tutto tondo, meritatamente applaudito a lungo già a partire dalla celebre «Dovunque al mondo lo yankee vagabondo», aria sottolineata da stereotipate ed efficacissime immagini made in Usa di ragazzoni prestanti, per lo più militari, scene collocate a sottolineare un imperialismo ottimista e sfrenato dunque ipocrita (apprezzato poi molto ed applaudito comme il faut anche in «Bimba dagli occhi pien di malia» e così pure in «Addio fiorito asil»). Molto bene Raffaella Angeletti che nel second’atto abbandona il look giapponese a favore di jeans e maglietta fucsia. Ottima vocalità, applauditissima in «Un bel dì vedremo», e molto bene sul piano scenico, ad esempio nel contrasto con la tenera Suzuki (la valida Giovanna Lanza) e nel rapporto delicato col bimbo (il disinvolto e tenero Luca Bosso).
E proprio il bimbo è protagonista di un’altra scena assai efficace: il celeberrimo coro a bocca chiusa (bene istruito da Claudio Fenoglio) accompagna una poetica processione di fanciulle (ma sono in realtà ancora le prostitute – pin up) che regalano al bimbo addormentato il sogno di tante piccole barchette di carta coi lumini. Lui si desta ed inizia a giocare in un sordida pozza. Ma arrivano i bulletti del vicinato e lo picchiano selvaggiamente: scena di una crudeltà indicibile, perfettamente in sintonia con lo spettacolo. Così come in sintonia l’idea di far decorare la casetta di plexiglas anziché da fiori veri («Scuoti quella fronda di ciliegio») da macchie colorate a tempera realizzate, come un gioco, da Suzuki, Cio-cio-san e dal bimbo stesso.
Tanti i dettagli degni di nota: il trolley Carpisa color violetto che racchiude gli effetti personali di Cio-cio-san, compreso il pugnale col quale venne indotto al suicidio il padre (e la musica di Puccini, si sa, in quel mentre si fa cupa, minacciosa), le immagini proiettate di una donna che si trucca, quando la geisha allude, dinanzi al bimbo ignaro, al proprio futuro, la figura giustamente repellente di Yamadori che giunge in risciò con volgari ed enormi pacchi dono (il baritono Paolo Maria Orecchia). Cio-cio-san quando canta «Al Dio del Signor Pinkerton m’inchino» riceve una maglietta in dono made in Usa, ed anche il bimbo è abbigliato in modo occidentale, con tanto di scarpe da footing con le lucine a intermittenza nelle suole.
Tra i vari comprimari un cenno merita Ivana Cravero, alias Kate Pinkerton, tutt’altro che pia, materna, remissiva, garbata e schiva come vogliono il libretto e la tradizione, al contrario è ossequiosa alla morale del denaro, è avida e crudele, oltre che rampante, e infatti compie il gesto arrogante e volgare di lasciare un pacco di bigliettoni verdi ai piedi di Cio-cio-san («potrà dire alle amiche americane di aver salvato il piccolo dalla povertà e dalla miseria del paese asiatico in cui sarebbe certo morto di fame»). Ci è stato risparmiato il solito rito del bimbo bendato con bandierina stelle e strisce: Michieletto risolve la faccenda in modo valido, prevedendo che Cio-cio-san collochi il bimbo su un’altalena, di spalle al pubblico, quindi si uccide con quella stessa rivoltella con la quale aveva minacciato Goro che, quasi pedofilo, insidiava il bimbo molestandolo («Vespa, rospo maledetto, ci ronza intorno il vampiro»). Un harakiri nella miglior tradizione nipponica, ammettiamolo, sarebbe risultato del tutto dissonante in tale contesto (molto bene «Tu piccolo Iddio»). Agghiacciante poi il finale, con quelle luci fredde ed il bimbo quasi trascinato a forza sull’auto e infine luci vivide e abbacinanti da fondo palcoscenico che paiono alludere al ventre della (inesistente) nave che ingurgita tutto. Poi buio e velario. A dir poco un trionfo.
La direzione è affidata al giovane Daniele Rustioni. Bene, nel complesso, anche se avremmo voluto qualche maggior indugio, ad esempio «Un bel di vedremo» giunge quasi senza stacco… qualche dettaglio più cesellato, qualche gradazione dinamica in più, mentre tende a privilegiare le zone dal mezzo forte in su, talora rischiando di coprire un poco le voci. Va bene il tema dell’Inno statunitense, tronfio e altisonante, ma gli orientalismi delicati ed i tinnuli carillons di cui la partitura è costellata avrebbero richiesto più delicatezze. Spettacolo del quale a lungo conserveremo un gradito ricordo per il forte impatto visivo – già apprezzato dalla maggioranza dei critici lo scorso anno – e la perfetta capacità di aderire alla superba partitura pucciniana ed ai suoi incredibili assunti.
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