Nel romanzo Il Fuoco D’Annunzio ritrae Wagner (Lipsia, 22 maggio 1813 – Venezia 13 febbraio 1883) e immagina una versione mediterranea di Bayreuth
di Laura Bigi
Oggi, 13 Febbraio, i devoti della chiesa di Bayreuth, gli infiammati illuminati dal verbo wagneriano, ricordano e piangono e soffrono la scomparsa del Vate, del Poeta, del Musico. Chi meglio del Vate Gabriele D’Annunzio, poteva esaltarlo con parole così drammaticamente potenti, degne della personalità eccentrica e del carattere consciamente provocatorio del compositore tedesco? Dunque Wagner moriva in questo giorno di Febbraio del 1883 a Venezia. Il romanzo Il Fuoco (1900) si ambienta nella città lagunare nell’anno della morte del compositore, di cui lo stesso protagonista, Stelio Effrena, apprende la notizia alla fine della narrazione; esso rappresenta d’altra parte il manifesto, il programma dell’azione artistica dannunziana: la politica e la filosofia di un’arte, che essendo illuminata dall’esempio della Gesamtkunstwerk di Richard Wagner, aspira ad imporsi anche nel mondo mediterraneo. La costruzione di un Teatro d’Apollo (come quello di Bayreuth) sul Gianicolo è annunciata nel romanzo, è l’idea fissa del protagonista, la cui ispirazione si disperde tuttavia e continuamente in mille altri rivoli creativi. E D’Annunzio è provocatore quanto il suo germanico ispiratore. Le idee wagneriane sono rivoluzionarie e la sua opera è da lodare, ma è adatta agli spiriti del settentrione, «il suo drama non è se non il fiore supremo del genio di una stirpe», perché «se voi imaginaste la sua opera su le rive del Mediterraneo, tra i nostri chiari olivi, tra i nostri lauri svelti, sotto la gloria del cielo latino, la vedreste impallidire e dissolversi». Wagner era il superuomo teutonico. D’Annunzio (e Stelio) è l’artista che vuole essere il superuomo della latinità. Il Teatro di marmo del Gianicolo diventa il simbolo della potenza dell’arte drammatica come forma suprema di trasmissione del sapere e contemporaneamente di cimento creativo. Un teatro supremo fatto da uomini supremi, sprezzanti del volgo ottuso e sordo alla conoscenza dell’arte, dove tutto è restituito con una forza tale da eguagliare la potenza della Ispirazione stessa. L’Arte è Il Fuoco. L’Arte è unica cioè unitaria e in quanto tale deve trovare la forma e il luogo e gli intelletti adatti a tradursi.
L’orgoglio di artista egocentrico, quale era il D’Annunzio, così poco modestamente ammiratore di sè stesso, non poteva non cimentarsi nella competizione, anche se solo attraverso l’idealità di un romanzo.
© Riproduzione riservata
tratto da Il Fuoco di Gabriele D’Annunzio, a cura di Giansiro Ferrata, Oscar Mondadori, 1986, pp. 181-185
«Riccardo Wagner!» disse a bassa voce Daniele Glàuro, con una commozione subitanea, indicando un vecchio appoggiato al parapetto di prua. «Là con Franz Liszt e con Donna Cosima. Lo vedi?»
Anche il cuore di Stelio Effrena palpitò più forte; anche per lui disparvero a un tratto tutte le figure circostanti, s’interruppe il tedio amaro, cessò l’oppressione dell’inerzia; e solo rimase il sentimento di sovrumana potenza suscitato da quel nome, sola realtà sopra tutte quelle larve indistinte fu il mondo ideale evocato da quel nome intorno al piccolo vecchio inclinato verso il tumulto delle acque.
Il genio vittorioso, la fedeltà d’amore, l’amicizia immutabile, supreme apparizioni della natura eroica, ancora una volta sotto la tempesta, silenziosamente. […] «Sembra ch’egli soffra» disse Daniele Glàuro. «Non vedi? Sembra che stia per abbandonarsi. Vuoi che ci avviciniamo?» Stelio Effrena guardava con una commozione inesprimibile i capelli bianchi che il vento crudo agitava su quella nuca senile, sotto le larghe falde del feltro, e l’orecchio quasi livido dal lobo gonfio. Quel corpo, che era stato sostenuto nella lotta da un così fiero istinto di predominio, aveva ora l’apparenza di uno straccio che la raffica dovesse portar via e disperdere.
«Ah Daniele, che potremmo fare per lui?» disse egli all’amico assalito da un bisogno religioso di manifestare con qualche segno la sua reverenza e la sua pietà verso quel gran cuore oppresso.
[…]
«Credi tu che immerso nella poesia dei miti egli abbia sognato un modo straordinario di trapassare e ch’egli preghi ogni giorno la Natura di rendere la sua fine conforme al suo sogno?» domandò Daniele Glàuro […]. «Quale potrebbe essere per lui una fine degna?» – «Una melodia nuova, d’una potenza inaudita, che gli apparve indistinta nella sua prima giovinezza e che allora egli non potè fermare, all’improvviso gli fenderà il cuore come una spada terribile».
«È vero» disse Daniele Glàuro.
[…]
Ma entrambi trasalirono vedendo il vecchio reclinato volgersi a un tratto con il gesto di chi affoga nel buio e aggrapparsi convulsamente alla sua compagna che gittò un grido. Accorsero. Quanti erano sul battello, colpiti dal grido angoscioso, accorsero, si affollarono intorno. Uno sguardo della donna bastò perchè nessuno osasse di avvicinarsi al corpo che pareva esanime. Ella medesima lo sostenne, gli palpò i polsi, gli si chinò sul cuore, in ascolto. Il suo amore e il suo dolore segnavano d’intorno all’uomo inerte un cerchio inviolabile. Tutti indietreggiarono, rimasero in silenzio, ansiosi, spiando su quel volto livido i segni del ritorno alla conoscenza.
Il volto era immobile, abbandonato sulle ginocchia della donna. Due profondi solchi scendevano per le gote verso la bocca semiaperta, s’incavavano presso le pinne del curvo naso imperioso. Le raffiche movevano i capelli radi e sottilissimi sulla fronte convessa, la bianca collana di barba sotto il mento quadrato ove la robustezza dell’osso mascellare appariva atraverso le grinza molli. Dalla tempia stillava un sudore viscido, e un lieve tremito agitava uno dei piedi pendente. Ogni minimo segno di quella figura smorta restò impresso nello spirito dei due giovani per sempre.
[…]
«Noi lo porteremo» disse Stelio Effrena all’orecchio dell’amico, inebriato dalla tristezza delle cose e dalla solennità delle sue visioni. Il volto immobile dava appena qualche segno del ritorno alla vita.
«Sì, offriamoci» disse Daniele Glàuro impallidendo.
Essi guardarono la donna dal viso di neve; s’avanzarono, pallidi; offersero le loro braccia.