La voix humaine di Francis Poulenc e The Telephone di Giancarlo Menotti: amori appesi ad un filo (telefonico)
di Anna Barina
L’amore e la vita possono essere appesi ad un cavo, quello del telefono. Uno squillo, lei risponde, e due differenti episodi si dipanano sulla scena. Nel primo assistiamo ad un monologo tragico in cui una conversazione più volte interrotta si trasforma in una devastante dichiarazione d’amore, l’ultima prima dell’addio definitivo sulle parole “ti amo”. L’altro, invece, è un vero e proprio caso di amour à trois, dove l’altroè l’apparecchio che inghiotte le chiacchiere di Lucy mentre alimenta l’ansia di Ben. Testimone muto di scenari il più variegati possibili – piccole o grandi tragedie, bugie, risate, banalità senza troppa importanza – il telefono è così il perno attorno a cui ruotano “La voix humaine”, tragédie lyrique in un atto composta nel 1958 da Francis Poulenc sull’omonima piéce del 1932 di Jean Cocteau, e “The Telephone”, breve atto unico del 1947 di Giancarlo Menotti. Oltre al trillo, inopportuno o tragicamente atteso, ad accomunare il dittico nell’allestimento proposto al Teatro Comunale di Treviso è l’impianto scenico di Cristina Alaimo: lo spaccato di un motel con tanto di insegna fluorescente, di cui la platea può osservare con occhio indiscreto quanto avviene all’interno. Sembra di trovarsi di fronte ad uno dei quadri di Edward Hopper, pennello di quotidianità, solitudine e alienazione della middle-class americana fotografata sulla tela con crudo realismo nella prima metà del secolo scorso.
Se il pacchetto “due in uno” sulla scena può funzionare, prendendo in prestito dall’artista americano l’incapacità di comunicare e l’esibizione della quotidianità, le scelte del regista Sandro Pasqualetto non sempre convincono. L’impianto testuale di Cocteau, a cui la musica di Poulenc aderisce con suprema perfezione, è un esempio dell’unitario aristotelico di spazio, azione e luogo di rara bellezza e di eccellenza drammaturgia. Scegliere, quindi, di immergere la protagonista in una pretestuosa “normalizzazione”, di fatto la sottrae al suo tragico destino mutuandolo in farsa grottesca. Perché costringere Lei ad aggirarsi spiritata intorno ad una poltrona, attenta a non inciampare, proprio in uno dei momenti di più alto tasso drammatico – quando si rende conto di essere stata ingannata dall’amante e attorciglia il filo del telefono attorno al collo, quasi in un simbolico gesto di suicidio – oltretutto distraendo l’attenzione del pubblico con un energumeno che appare nella camera di fianco e mima di sedurre una cameriera? Nella musica e nel testo c’è già tutto: ogni frase, diversa dall’altra, indossa il giusto abito di note con cui avvolgere la nuda stanza, la voce del soprano cui sono richieste capacità recitativa e sfumature sentimentali che non mancano a Daniela Mazzuccato e il telefono; i particolari in eccesso stridono e sviano inutilmente. Lo stesso accade nell’opera di Menotti, dove giocosità e brillantezza che fanno da cornice alla garbata satira della logorrea telefonica, pur appartenendo alle corde e alla verve dei due interpreti, Mariacarla Seraponte e Carlo Morini diretti dalla bacchetta di Claudio Desderi alla guida dell’Orchestra di Padova e del Veneto, tendono a scolorire sulla scena.
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