
A Venezia, nella ricorrenza del suo settantesimo compleanno, si è tenuto un concerto in omaggio al musicologo scomparso pochi mesi fa, figura di rara apertura e libertà intellettuale nell’indagine sulla musica come prodotto di creatività innovativa
di Giampiero Cane
D oveva essere un concerto per festeggiare i 70 anni di Giovanni Morelli, ma la malasorte non ha voluto che l’uomo raggiungesse quell’età. Sicché, invece che essere una festa alla persona, la serata si è trasformata in un memorial per una figura intellettuale che non potrà che affermarsi nel tempo, finendo col risultare altissima, quella di uno dei maggiori musicologi del periodo. Né l’Università di Ca’Foscari, né la Fondazione Cini potranno facilmente sostituirlo e ai lettori di studi musicali mancherà il suo brio, la sua capacità d’indagare la musica come prodotto della creatività innovativa, capriccio e invenzione delle regole del gioco, piuttosto che non come performance all’interno di metodi dati.
Egli amava i ribelli, la libertà dello spirito, l’anarchia come legge della libertà. La sua apertura mentale era fantastica, ché sapeva cercare questo bene dell’esistenza, non solo là dove ognuno lo trova, in Ives, per esempio, o Cage, o Monteverdi, o Gesualdo, o Schumann, ma in Scott Joplin, in Cimarosa, in Verdi, nel minimalismo che sembra un gioco di macchinette “beyond Cage”. Gli artisti della musica minimal e ripetitiva li scoprì già negli anni ’60, storielle sulla Scratch Orchestra, sul MEV (che alla fine del decennio era più a Roma che altrove), qualche disco ordinato per il tramite di Bongiovanni. Lui non sentiva come necessità l’allontanarsi da Darmstadt, ma anzi ammirava molto Boulez, la sua scienza della costruzione.
Comunque per Morelli non era necessario condividere le ragioni di un processo e di un pensiero per apprezzarne gli esiti; quelli erano in sé e da valutare come tali. Alla fine si sono trovati sulla sua scrivania appunti su Frederic Rzewski, sul MEV (il gruppo Musica Elettronica Viva fondato a Roma nel 1966), che continuava a studiare dopo l’ultimo corso svolto all’università. Ai promotori del concerto è parso allora proprio naturale che esso fosse imperniato su quelle musiche che da ultime Morelli stava rivisitando e studiando. Per questo il concerto del mancato compleanno, l’appena scorso 14 maggio, è stato appannaggio di Frederic Rzewski, con musiche sue e di Cornelius Cardew, cui sono state affiancate due pagine di Andrea Liberovici, figlio del primo matrimonio di Margot, acquisito diciamo da Morelli.
Era uno strano mondo di perdenti quello di Cardew, Rzewski, Lacy: poesia che sgorgava inattesa nel tentativo di non confezionare la musica
Cardew e la Scratch vivevano di un’ideologia del tutto libertaria, che ciascuno che partecipava facesse quel che poteva, ma seriamente, senza buffonate cialtronesche. Non era importante che la musica fosse chissà che, ma che avesse luogo. La fisica e la matematica di Darmstadt erano tranquillamente accantonate. Stockhausen poteva essere in sintonia con Aus den Sieben Tagen, ma null’altro. Era uno strano mondo di perdenti quello di Cardew, Rzewski, Lacy: poesia che sgorgava inattesa nel tentativo di non confezionare la musica. Poi, anche per loro qualcosa è cambiato. Le Thalmann Variations di Cardew, del 1974, hanno quasi una solennità da corale, ma anche un pizzico d’abbandono femmineo, poi hanno altri caratteri, essendo appunto variazioni; le 36 Variations on “The People United Will Never Be Defeated” di Rzewski una sorta di monumentalità che appassionò Morelli forse per un accostamento col neoclassicismo prodotto anche nella Rivoluzione francese. Nel discorrere, gli opponevo l’immagine delle statue cimiteriali, ma non se ne usciva.
Nell’interpretazione di Rzewski, Cardew, da quei lontani anni, direi si sia fatto più problematico, se non addirittura oscuro, invece che, come avviene di solito, schiarirsi e semplificarsi. Ma il musicista e strumentista ha sempre un calore comunicativo e un’energia che non lascia sospettare i suoi 74 anni. Delle due musiche di Liberovici, Mephisto’s Suite e 6 Haiku per Giovanni, prima di tutto c’è da dire che sono molto diverse, che non sembrano essere uscite dalla stessa mano, che certo non appartengono a emozioni che si somiglino. La Suite è un contenitore di accumuli, nel quale Andrea ha gettato un po’ di tutto con teatralità manifesta; i 6 Haiku sono invece decisamente morbidi, riflessivi, con materiali musicali che si specchiano l’un l’altro, si confrontano e si riplasmano: un qualcosa che viene disponendosi, che non colpisce, ma seduce. Ambedue sono per violoncello amplificato ed elettronica, ma nulla di “teatrale” per il solista, qui una cellista, Marine Rodallwec, che se ne stava in pieno à plomb sulla non asperrima partitura.
Il veneziano Auditorium Santa Margherita che ha ospitato il concerto era gremito. Dalla calle su cui dà, arrivava un brusio appena avvertibile: Rzewski, in questo caso poco “beyond Cage” ha chiesto che si chiudessero meglio le porte. Personalmente ricordo un Cage che andò ad aprire alcuni finestroni del Politeama di Palermo mentre veniva eseguita la sua Winter Music, e forse c’era Rzewski al pianoforte, e comunque Cage maneggiava l’elettronica. Ma le ragioni di una musica non sono necessariamente quelle di un’altra.
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