RILFESSIONI. “Addio anni ’70” a Milano, Palazzo Reale
È possibile ricordare gli anni ’70 trascurando la musica? E come è cambiato il rapporto delle istituzioni con la documentazione fotografica? La riflessione appassionata di due autorevoli fotografi che hanno documentato quegli anni di grandi sinestesie creative
di Silvia Lelli e Roberto Masotti
P oniamo che si volesse fare una rassegna o anche “solo” una grande mostra sul tema La Fotografia che guarda alle Arti, si dovrebbero a nostro parere mettere in fila discipline artistiche come: pittura, scultura, disegno, cinema, fotografia, video, musica, teatro, danza. L’artigianato, sicuramente quello “alto” andrebbe incluso. Questo per considerare tutto quanto vada compreso e indagato. Innanzitutto andrebbe compreso in cosa consista lo sguardo della Fotografia e dei fotografi ed essere in grado di classificare ed evidenziare i punti in cui è avvenuto qualcosa di cruciale e da cui non si è tornati indietro, tecnico o estetico che sia. L’uso della fotografia, prima specialistico e appannaggio professionale dei fotografi è stato immediatamente assunto come mezzo dagli artisti stessi dando il via a quell’atteggiamento che mescola codici e linguaggi altrove definito come “multimediale” o anche “trans-mediale”. Ecco quindi, da subito, intrecciarsi molti aspetti che se ben fondati e sviluppati possono condurre ad un bel approfondimento del tema.
Cage o non Cage, evento o non evento, anniversari o non anniversari che lo riguardano, gli altri pochi riferimenti, anche semplicemente sonori, sono troppo pochi per contrastare una critica
Questa premessa “programmatica” per dire che risulta invece impossibile procedere con regolari e rituali esclusioni di “convenienza” un po’ perché così piace un po’ perché, appunto, conviene o, almeno, usa. Compromessi, adattamenti, viste parziali, contribuiscono massimamente al ritardo, non alla chiarezza. Possiamo essere d’accordo in linea di principio con una certa tendenziosità che assegna precedenze, sottolinea, spariglia, ma nel perdurante clima di stagnazione critica e storiografica in ambito fotografico, nonostante significativi, recenti sforzi e passi avanti, se continua un grottesco gioco di esclusioni non si chiarirà veramente un ragionevole quadro generale aderente al reale e ai processi formativi.

Lo spunto per queste forse poco chiare considerazioni, a loro volta, viene da una evidente esclusione: la musica all’interno della pur bella mostra “Addio anni ’70” a Milano, Palazzo Reale. La stessa ben inteso si contraddistingue per una presenza fotografica raramente visibile in giro e comprende il nostro lavoro “Empty Words, John Cage al Lirico, 1977-2012”. Non siamo quindi a lamentare una nostra assenza ma questa poco musicale opera del compositore non è in grado di compensare quella che è una evidente trascuratezza. Empty Words è una di quelle composizioni senza musica, una lettura di testo con proiezioni. Cage o non Cage, evento o non evento, anniversari o non anniversari che lo riguardano, gli altri pochi riferimenti, anche semplicemente sonori, sono troppo pochi per contrastare una critica. Un trittico video di Davide Mosconi sul pianoforte, il Parco Lambro di Grifi con qualcosa di musicale che passa sul palcoscenico, le interviste di Pietro Pirelli al Teatro Lirico. Gabriele Basilico non rappresenta, nel suo gruppo d’immagini, quei concerti che erano l’essenza stessa del festival con ampio contorno sociale. Il resto, volendo, era folclore, abbastanza appiattito su modelli hippie moltiplicati in fotocopia, sociologicamente appetibile per una registrazione fotografica ma anche difficilmente estraibile da un contesto culturalmente più ampio. Ecco, è proprio questo isolare eliminando l’imprescindibile colonna sonora di quegli anni, qualsiasi fosse, evitando il pop, il rock, il jazz, la musica folk, quella politica, quella sperimentale, quella cosiddetta contemporanea, quanto che anche le istituzioni erano obbligate a fare sulla spinta rivoluzionaria che veniva dal basso e che non era lecito trascurare. Questo non solo in termini culturali ma anche commerciali dato che il mercato si faceva improvvisamente più vasto e variegato anche con il prog, il free, il folk, l’impegno.

Se rispetto a quest’ultima perorazione facciamo un passo indietro troviamo che più semplicemente non sia mai sotto attenzione quella fotografia che “copre” lo spettacolo. Forse perché costretta a farlo discretamente e il più possibile silenziosamente, perché forse appoggiata all’arte di altri, questa sembra esaurire nella documentazione o nella promozione il proprio essere. E’ un tipo di fotografia meno retorica, meno enfatica, assai meno riferita alle categorie accademiche che facilitano percezione e classificazione. Nella non conoscenza della materia, non padroneggiando nomi e fenomeni, vicende e storia, si tende a trascurare il pur ben rappreso istante in cui un interprete o performer è colto, la convergenza di espressione e stile, l’esemplarità del momento così consapevolmente isolato.
Lo stesso ambito architettonico spaziale, quello dei luoghi dove si fa spettacolo è tutto sommato trascurato, se non nelle riviste di architettura secondo criteri specialistici ma dove la lettura e la discussione nei confronti di suono, musica, spazio si è accesa più volte, doverosamente. Ci siamo domandati più volte nei decenni come mai ci fosse così poca energia nel rappresentare i teatri di tradizione italiani fino a che non ci siamo applicati ad una ricerca che ne fornisse una inedita immagine fuori da schemi e rigidità tuttora operanti o come così poco, o per nulla, ci si applicasse a figure importanti del mondo musicale italiano e internazionale escludendo l’area pop.

I n ambito istituzionale i teatri hanno sinora, con ben poche eccezioni, vivacchiato affidando sì incarichi a fotografi che forniscano documentazione funzionale alla promozione degli spettacoli ma ben poco costruendo e, di conseguenza, conservando in termini di archivio. La scelta del fotografo “specialista” è fatto recente, spesso lo si sceglie tra quelli generici secondo il sistema della domanda e dell’offerta, ora, sempre più, al ribasso e secondo una contrattualistica inadeguata. La mancata definizione specialistica e la mancata valorizzazione del ruolo e della produzione fotografica stessa, tramite opportune scelte critiche, in generale porta ad immiserire le potenzialità e a togliere allo stesso autore responsabilità in questo senso. La sua attività, le sue intuizioni e scelte, molto più “vicine” e frutto di empatia sono tenute a distanza dalle strategie di comunicazione, di marketing che ora i teatri sono tenuti a mettere in campo, e risulta persino difficile programmare l’attività quando non vi sono sufficienti informazioni condivise con ufficio stampa e direzione artistica.

Se allora la mancata valorizzazione da parte dei teatri, o comunque organizzazioni di spettacolo, si congiungono con una cronica assenza da parte della critica d’arte in genere e in specifico di quella fotografica capiamo facilmente il perché della situazione di cui stiamo parlando. A parziale conforto dei presunti colpevoli si può dire che il panorama così giace, o almeno lo sembra, anche internazionalmente parlando, la dove l’educazione musicale è ben più solida e diffusa che la nostra, dove teatro, danza, ecc. godono anche di più promozione e finanziamenti. Così è stato, per meglio dire, fino a poco tempo fa. Poi tutto è crollato e di conseguenza anche la speranza per la Fotografia di Spettacolo di essere considerata come parte importante della Fotografia. Qualcosa di episodico qua e la è per carità accaduto con sprazzi di rock, jazz, danza, qualche tacca è stata messa ma non basta. Va sanato un ritardo, va, per così dire, riparata un’offesa, lavata la ferita.
Non ci vorrebbe molto a considerare la presenza di cospicui archivi che costituiscono degli esempi, perfettibili sicuramente, ma già di per se eloquenti per numeri e consistenza. Basti pensare a quelli del Teatro alla Scala e del Piccolo Teatro a Milano. Accade però che per incomprensibili, e comunque inaccettabili, ragioni burocratiche, di relazioni istituzionali, questo tipo di archivi non entrino in rete con quanto più chiaramente definito, stabilito, accettato in termini fotografici. Basti pensare anche solo al valore didattico delle raccolte citate e a quanto ad esse ci si riferisca per lezioni e tesi per elaborare il passato artistico costruito sui palcoscenici. Uno sguardo e un ambito trascurabili? Non diremmo proprio.
Oltretutto ci sono parecchi archivi privati, come il nostro ad esempio, che hanno per le ragioni sopra enunciate un futuro difficile di fronte a sé. Sempre che non si prospettino e si costruiscano occasioni di lettura e approfondimento che ne dichiarino l’esistenza e il valore. Deve letteralmente insinuarsi una percezione che squarci il velo che annebbia letteralmente la visione nei confronti della fotografia che guarda ad un mimo, un ballerino, un direttore d’orchestra, un jazzista, un rocker, e a tutto il resto. Eliminare il dubbio, l’incertezza, superare l’ignoranza, ci vuole tempo, ma se mai si inizia…
Per concludere (provvisoriamente): si è evidentemente creata nei decenni una zona d’ombra in cui la fotografia legata alle performing arts non compare o quasi e questo, si badi, nella pubblicistica, nelle mostre, rassegne, festival, convegni, e in quei saggi che solo recentemente tentano di ammodernare il quadro critico e di recuperare tempo.
Per una discussione, e quanto sopra è solo un pretesto per iniziarla.