Performance tecnologica di luci e di ombre al festival The Art of Listening di Berlino con la compagnia di artisti phase7
di Barbara Babic
Beckett: «Signor Feldman, io non sopporto l’opera»
Feldman: «Non me la prendo mica a male»
Beckett: «E non mi piace neanche quando le mie parole vengono messe in musica»
Feldman: «Sono d’accordo. In effetti anch’io nelle mie composizioni uso raramente le parole. Ho scritto alcuni pezzi per voce completamente senza testo»
Beckett: «Allora cosa vuole da me, scusi?»
Feldman: «Non ne ho idea»
U n dialogo simile avvenne presso lo Schiller Theater di Berlino nel 1976 tra il compositore statunitense Morton Feldman e lo scrittore Samuel Beckett. Feldman era alla ricerca non solo di un testo per l’opera commissionatagli in quell’anno dall’Opera di Roma, ma piuttosto della «quintessenza, di qualcosa di appena librato in aria» che sapeva di poter trovare nelle parole di Beckett. Con qualche esitazione, qualche mese dopo, lo scrittore irlandese inviò al compositore una cartolina sul cui retro si trovavano 87 parole disposte su 16 righe, che in pochi mesi sarebbero diventate il ‘libretto’ di Neither per soprano e orchestra (opera che verrà eseguita per la prima volta il 13 maggio 1977 a Roma sotto la direzione di Marcello Panni). Un solo personaggio indefinito, nessuna trama, nessuna azione: un’opera che sfugge in tutto e per tutto alla definizione convenzionale del genere e per questo spesso definita ‘anti-opera’, talvolta monodramma à la Erwartung, talvolta addirittura canzone. Feldman, convinto che il testo fosse «davvero il mio stesso pensiero detto il un altro modo», rimase fedele alla promessa fatta allo scrittore irlandese. Le parole, in questa composizione, sono quasi impercettibili: vengono dilatate talmente tanto da percepirne solo le vocali, che si sciolgono e diventano suono puro; oppure si frammentano in sillabe, ripetute ostinatamente tanto da diventare un mantra, un ritmo ossessivo, oppure un vocalizzo continuo. Si ricrea così un’atmosfera di eterno presente, cupa e tesa, fatta di fantasmi e di echi, in cui si perdono le coordinate spazio-tempo a favore di un eterno presente fatto di luci e di ombre.
E con queste luci e queste ombre gioca, all’interno della cornice del festival The Art of Listening al Radialsystem, il gruppo di artisti berlinesi phase7. La compagnia – fondata nel 1999 e costituita da cantanti, attori, musicisti accanto ad un’equipe di informatici, desiger, grafici, ingegneri del suono, capitanata con successo da Sven Sören Beyer – decide di sostituire in quest’occasione l’orchestra tradizionale con 72 altoparlanti disposti in forma ottagonale intorno ad un piccolo palco quadrato. Attraverso questo ‘strumentario’ di grande innovazione (il sound system IOSONO della IDMT) – che si avvale della tecnologia Wave Field Synthesis (WFS) – arriva al pubblico, in quest’occasione disposto intorno al palco nel buio totale in una nebbia piuttosto fitta, un suono di eccezionale qualità, intenso, mai freddo, avvolgente ed equilibrato nei volumi. Ottima la prova della soprano norvegese Eir Inderhaug che sostiene per cinquanta minuti un’opera dalla comprensione e dall’esecuzione tutt’altro che facile. La sua gestualità è minima, l’espressività del volto sempre intensa, precisi i movimenti attorno ai fasci di luce che la circondano, sapientemente creati dal lightdesigner Björn Hermann.
Un’esecuzione riuscita con successo (nonostante un piccolo inghippo logistico iniziale, superato con ironia vista la proverbiale sfortuna legata al venerdì 13) che mostra come la tecnologia, attraverso un progetto ben pensato, mezzi sapienti e buongusto, possa essere un valido mezzo per ripensare le opere e creare interessanti percezioni musicali, senza snaturare l’opera originaria.
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