
Nel centocinquantesimo della nascita (Saint-Germain-en-Laye, 22 agosto 1862) una riflessione su uno dei più grandi innovatori della storia della musica
di Bianca De Mario
Con un Clair de lune vibrante e sospeso si chiude Tokyo Sonata, film di Kiyoshi Kurosawa che nel 2008 ottenne il premio della critica a Cannes nella sezione Un certain regard. Spettatori della progressiva disgregazione di una famiglia giapponese, che attraversa vicende a tratti rocambolesche, ci ritroviamo ad assistere ad un’audizione in cui il brano più celebre di Debussy offre la cadenza non ad un finale ma ad un nuovo inizio, tanto sospirato dai personaggi nel corso della vicenda: la ripresa di questa sonata per lo schermo.
Ha fatto il giro del mondo, Debussy, ed è approdato in quel Giappone che, incarnato nella Grande Onda di Hokusai scelta per illustrare la sua Mer (1905), non è stato semplicemente oggetto d’ispirazione esotica ma reale «vettore del rinnovamento» del suo linguaggio (Jean-Pierre Bartoli, 2005). Non sarà forse un caso che proprio questa terra si presti a cogliere l’essenza di uno dei compositori francesi più importanti – se non il più importante – della storia della musica occidentale. Pur semplice e in apparenza scontato, quel Clair de lune, riappropriatosi del suo significato originario, si pone come una velata chiave di lettura per l’intero film. In fondo, i protagonisti di questa moderna fiaba nipponica non sono così dissimili da quelle maschere settecentesche «che cantano in modo minore», popolando le Fêtes galantes di Verlaine (1869) ed ispirando la Suite Bergamasque (1890, poi 1905), cui questo Chiaro di Luna fa da Sarabanda.

Il «giro più lungo» (Francesco Remotti, 1990), il passaggio ad una realtà altra, seppur occidentalizzata, ha permesso a questo brano di ritrovare le proprie origini e di spogliarsi degli abiti romanticheggianti che l’immaginario popolare gli aveva attribuito – complici la fortuna e la vastissima circolazione – trasformandolo in jingle prediletto per le pubblicità di profumi francesi, in classico delle tendenze new age anni ’90, sino a divenire colonna sonora per gli amori di adolescenti vampiri hollywoodiani. Viene a questo punto da chiedersi quali e quanti volti abbia oggi Debussy ad un secolo e mezzo dalla sua nascita e soprattutto perché valga ancora la pena riscoprirli.
La musica predomina troppo nel teatro d’opera. Si canta troppo, e gli accompagnamenti son troppo pesanti. La voce deve fiorire nel vero canto solamente quando l’azione lo richiede. Un quadro in grigio sarebbe l’ideale. Nessuno sviluppo solo per il piacere di sviluppare. Uno sviluppo che si prolunga troppo non si adatta, non può adattarsi alle parole
Claude Debussy (conversazioni con Ernest Giraud)
Mentre, piuttosto silenziosamente – quasi a non fargli torto – fioriscono su cartelloni e locandine i titoli delle sue opere, da Parigi sino a Montréal, dal connubio Milano-Torino sino al Maggio Fiorentino, c’è chi parla già di una ricaduta nella debussyste, quell’«incurabile morbo» (Andrea Malvano, 2012) che ebbe il suo primo picco endemico con il Pelléas nel 1902. È il Debussy più ‘debussista’ ad accendere questi fuochi, quello sinuoso ed evanescente del Prélude à l’après-midi d’un faune (1895) o quello dei Nocturnes sfumati ed argentei (1900-01), il Debussy baldanzoso e brillante di Ibéria (1905-08) o quello ironico ed ammiccante dei Children’s corner (1908). Una timida diffidenza sembrano ancora suscitare certi lavori giovanili, quelli del ‘Debussy prima di Debussy’, uno per tutti La demoiselle élue (1887-89), frutto del tormentato soggiorno romano e debitore, forse più di altri, dell’influsso wagneriano e della fascinazione esoterico-occultista, puro marchio Paris fin de siècle. Con interesse ed attrazione si guarda alla nuova ritualità misterica del Martyre de Saint-Sebastien (1911), mentre la ricerca ritmica estrema e la frammentazione del balletto Jeux (1912), insieme all’ardita esplorazione linguistica dei Douze études (1915) per pianoforte, ci spingono forse con un pizzico di dubbio, misto a curiosità, verso un Debussy oltre se stesso, oltre il suo tempo, già verso il cuore del Novecento.
Se più familiari alle nostre orecchie restano il pianismo degli Arabesque (1888) e la voce rassicurante di certe chansons arcaizzanti o di altre sensuali mélodies, il suo volto di ‘innovatore’, quello di capofila del nuovo secolo, risiede proprio nella sua costante spinta verso il nuovo, nella sua continua sperimentazione, che tuttavia mai si distacca totalmente dall’universo da cui proviene, dalle sue radici. Ed è forse proprio questo il suo volto più vero, al di là di debussismi e debussiti, al di là di letture formali che si dividono tra impressionismo e strutturalismo. Il timbro e la sonorità sono da subito i centri gravitanti della sua composizione, il filo teso di un aquilone che, pur volteggiando ed allontanandosi dalle sicurezze di ‘casa tonalità’, riesce a non sparire all’orizzonte. Forse è ciò che lo rende attuale anche quando viene messo in un angolo, ciò che ancora parla alla nostra sensibilità.
Tra i tanti volti dell’uomo Debussy – il marito infedele, il padre tenero, l’amico spiritoso – ve n’è forse uno che ancora solletica la nostra attenzione: il suo alter ego, Monsieur Croche, il critico flâneur e beffardo, l’antidilettante creato dalla sua penna come interprete del suo pensiero sulle riviste dell’epoca. Sono i giornalisti, spiega Croche, a disprezzare gli uomini che cercano di scuotere la polvere delle tradizioni, affibbiando loro le etichette di simbolisti o impressionisti. Bisogna restare unici, cercare la disciplina nella libertà, «senza ascoltare i consigli di nessuno se non quelli del vento che passa e ci racconta la storia del mondo».
Non sveliamo oltre gli altri infiniti volti di Debussy, continuiamo a custodirli celatamente per poi riscoprirli un poco. E chissà se un giorno, giunti in terra lontana, potranno suggerirci ancora qualcosa. Il Signor Croche lo sa meglio di noi: «Conosce un’emozione più bella di quando si decifra per caso il segreto di un uomo rimasto ignoto attraverso i secoli?… Essere stato uno di quegli uomini, ecco la sola forma valida di gloria».