La Sagra Malatestiana di Rimini ha presentato in prima assoluta una versione scenica, realizzata dal collettivo Santasangre, del ciclo per voce e pianoforte di Olivier Messiaen
di Patrizia Luppi
All’interno del lavoro di ricerca in cui la Sagra Malatestiana di Rimini si è impegnata da diversi anni – la drammatizzazione di lavori musicali non nati per la scena – un capitolo di particolare interesse ha visto la luce in questa edizione, nei giorni 15 e 16 settembre scorsi, con il ciclo per voce e pianoforte Harawi di Olivier Messiaen affidato al collettivo romano Santasangre.
Sono tre i lavori di Olivier Messiaen ispirati alla leggenda di Tristano e Isotta, composti tutti tra il 1945 e il 1948: il primo è appunto Harawi. Chant d’amour et de mort, un ciclo di dodici canti per soprano e pianoforte; poi la sinfonia Turangalîla, imponente lavoro orchestrale; infine i Cinq Rechants per dodici voci a cappella. Tre modi molto diversi di declinare in musica la personalissima visione di un mito che Messiaen per primo riconosceva universale: «Si può dire che questa leggenda è il simbolo di tutti i grandi amori e di tutte le grandi espressioni liriche d’amore in letteratura e musica», dichiarava infatti, aggiungendo però che nei suoi “Tristano e Isotta” «non c’è nessuna relazione con l’antica leggenda celtica (…). Ho conservato soltanto l’idea di un amore fatale, di un amore irresistibile, di un amore che in linea di principio conduce alla morte e che, in una certa misura, oltrepassa il corpo, oltrepassa le stesse funzioni dello spirito e si accresce su una scala cosmica». Da sottolineare che Messiaen, fervente cattolico, non poteva vedere nell’amore umano che un riflesso, se pur pallido, dell’amore divino, come egli stesso ebbe ad affermare.
Legato forse a una triste vicenda biografica del compositore – la sua prima moglie aveva iniziato a soffrire di seri disturbi mentali – il ciclo Harawi dichiara fin dal titolo i suoi rapporti con la cultura peruviana: si riferisce infatti a un genere poetico e musicale di origine lontanissima, risalente addirittura al tempo degli inca, di contenuto amoroso e spesso nostalgico e doloroso; Messiaen utilizzò anche alcuni vocaboli dell’antica lingua quechua del Perù nel testo, scritto da lui stesso, che suggerisce la vicenda dei due amanti non attraverso un percorso narrativo, ma grazie al potere evocativo delle parole e delle immagini, in uno stile di matrice surrealista. Non a caso il compositore ebbe a dichiarare che tra le sue fonti di ispirazione per Harawi c’era stato un dipinto di Sir Roland Penrose, alfiere del surrealismo britannico.
Molti colori ricorrono nel testo: il verde, il viola, il blu, l’oro, il rosso, il malva… cosa che non stupisce se si ricordi che Messiaen diceva di essere spontaneamente portato alla sinestesia tra suoni e colori; con la stessa ampia tavolozza appare dipinta anche la musica di Harawi, minuziosamente elaborata dal punto di vista ritmico, rutilante di motivi scintillanti, di suoni onomatopeici, di inflessioni vocali di generi diversissimi, dal declamato al lirico al grido, in una relazione continuamente cangiante tra il muoversi del canto e quello della tastiera pianistica, tra fasce di oscurità e lame di luce.
Messo di fronte al compito improbo di drammatizzare questo lavoro così compiuto in sé, Santasangre ha in primo luogo scelto di non intervenire con manipolazioni sulla musica (altri, in passato, proprio qui alla Sagra si erano presi questa libertà): gliene siamo profondamente grati. Nel piccolo teatro del riminese Complesso degli Agostiniani, il collettivo romano (Premio Ubu 2009) ha disposto sul fondo cantante e pianoforte, ha leggermente schermato la scena con un velario e ha affidato l’azione a quattro personaggi: i primi ad apparire, la falconiera Monica Galli con due magnifici rapaci – una poiana e un gufo reale – e il giovane ginnasta a torso nudo Antonello Compagnoni, serenamente disinvolto nelle sue evoluzioni con gli anelli, parevano incarnare libertà, natura trionfante, incontaminata purezza. I due attori non parlanti, Maria Teresa Bax e Marcello Sambati, erano un’Isotta e un Tristano di età matura, simboli della perennità della tensione amorosa nell’esistenza umana. In una delicata coreografia di gesti essenziali, evocavano l’incontro, il desiderio, la morte e, dopo di questa, il rinascere della passione, mentre sul velario un tratto di luce scriveva via via nomi e parole, con effetto di raffinata suggestione.
Per quanto riguarda l’esecuzione musicale, l’esperto e sensibile pianista Lucio Perotti si è confrontato con successo con la scrittura, a volte ardua, di Messiaen. Del soprano Matelda Viola abbiamo intuito le lodevoli intenzioni, ma le sue qualità vocali e tecniche non ci sono apparse purtroppo adeguate.