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Incontri • Da domani nei negozi la nuova registrazione del pianista italiano. Occasione di ascolto per ripercorrere le turcherie e riflettere sulle caratteristiche “sceniche” della musica strumentale
di Simeone Pozzini
[laquo]C’è qualcosa nella ricerca disperata della bellezza e della vita nella bellezza che accumuna tutti quelli che fanno gli interpreti», ci dice il pianista Davide Cabassi. Ma la vita degli interpreti, se credono nella musica che stanno approfondendo, può essere anche un’inferno: arrovellati sulla ariosità dei fraseggi, sulle scelte sonore, sulla quantità di escursione nei crescendo. E va da sé, fondamentale, sull’interpretazione delle indicazioni agogiche. «Non è stato semplice trovare il tempo dell’Andante della K 331, un classico. Io partivo con l’idea di un tempo in due. Invece ci sono così tanti esempi di 6/8 nelle opere liriche che alla fine ho capito. Si suona in sei, altrimenti diventa un Allegretto». Non è una danzante giornata di sole, di quelle cubane alla Cervantes, ad accogliere il nostro incontro a Milano. Cabassi è però simpaticissimo, domina i luoghi. All’apparenza istinto puro, nelle tasche riflessione continua. Un sorriso e subito dopo accigliato. State attenti se lo incontrate, potreste essere rapiti dalla sua dolcezza e veemenza.
Magari, tanto è sorprendente la sua versatilità, lo vedremo con una zappa in mano nella sperduta Moravia per la copertina della monografia dedicata a Leóš Janáček, in uscita a gennaio con Amadeus. Intanto appare come un burattino saraceno nelle mani di Mozart nella copertina (disegnata da un allievo, Alberto Chines, mentre le note del booklet sono di Vittorio de Iuliis) della sua registrazione mozartiana, Decca, da domani nei negozi. Ha dovuto quasi litigare per quella copertina, Cabassi è uno che si impunta. Nel nome dell’arte. «Ho cercato di curare l’oggetto disco in modo che mi rispecchiasse il più possibile». Una registrazione che «nasce da una proposta Decca. Credo che in tutti gli ascoltatori, frequentatori di concerti o interpreti, esista una storia personale con Mozart»
E la sua storia con Mozart qual è stata?
«Pianisticamente è uno dei compositori che ho frequentato di più in assoluto. Ho suonato una ventina di concerti per pianoforte e orchestra, tante sonate e tantissima musca da camera. Le sonate per violino e pianoforte, tutte. Comunque ho sempre avuto una gioia nel suonare Mozart che definirei fisica».

Nella frequentazione di questo repertorio il suo approccio alle opere di Mozart com’è cambiato nel corso del tempo?
«È cambiato un certo tipo di percezione, ad un certo punto. Forse quando sei ragazzino segui un po’ più alcune mode interpretative, mi sono lasciato sedurre da un certo tipo di interpretazione mozartiana, sempre apollinea, asessuata. Con tutto il rispetto, il Mozart di Zimerman. Estremamente estetico, ma anche un po’ falso. Perché tutta questa cosa del bambin Gesù fatto grande compositore mi è sembrata falsa. C’è un po’ una linea di confine nel mio rapposto con Mozart, c’è un prima e un dopo. Quando ho scoperto che Mozart è sempre teatro, anche in tutta la musica strumentale, e quindi è sesso, sangue, sudore, è sanamente “sporco” in tante cose, e non è soltanto un compositore sterilizzato come viene proposto spesso dagli strumentisti. Se guardiamo, la storia dell’interpretazione di Mozart dopo gli anni ’60 va molto in questa linea. Io trovo che ci debba essere un’azione scenica vera anche nelle opere strumentali, che si raccontino i personaggi con i temi. Il difficile è trovare un equilibrio».
Quali sono le vicende che uniscono i brani che ha scelto per questo disco?
«A me interessava quel momento nel quale nella musica del Settecento irrompono le turcherie, e mi interessava perché quando ero piccolino ascoltavo sempre Les pèlerins de la Mecque di Gluck, un’opera incredibile in cui viene inventato anche un arabo maccheronico. C’è la fascinazione per certi strumenti, certe sonorità. Questa cosa è arrivata davvero come un’ondata travolgente perché tutti hanno scritto qualcosa che fosse riferito a questa moda, e Mozart ha avuto il suo periodo. Ho quindi cercato di accostare due pezzi più clamorosamente turchi, la K 331 con il noto finale “Alla Turca” e le Variazioni su un tema di Gluck da Les pèlerins de la Mecque, per ricostruire un po’ di questa fascinazione. Ma nella maniera di Mozart. Che è un po’ diversa da quello che hanno fatto Lully, Gluck, Rameau stesso, in cui l’esotismo veniva veramente un po’ sbattuto in faccia al pubblico come una moda. In Mozart c’è fin da subito una rielaborazione molto raffinata e molto personale. La K 332, in fa maggiore, è stata scelta perché contingente alla 331, per mostrare come in poche settimane Mozart potesse concepire due opere così radicalmente diverse dal punto di vista formale, emotivo. Due opere che potrebbero essere state scritte in due luoghi geografici diversi. La Sonata in sib maggiore K 570 è stata scelta in relazione alla Sonata in fa maggiore. Il primo tema di questa sonata, basato essenzialmente sulle note degli accordi, è in realtà assimilabile al primo tema di quella in sib maggiore».
Due punti di partenza piuttosto simili e due tonalità molto vicine.
«Ma poi si va ancora una volta in direzioni opposte. Nella fa maggiore, scritta in un periodo molto turbolento della vita di Mozart, c’è tutto: ci sono tre temi invece che due, c’è un contrasto costante tra ogni sezione del primo tempo. I tre movimenti sono estremamente differenziati. C’è una teatralità assoluta. Un tema che è sempre in un certo senso Donna Anna, poi un tema maschile un po’ demente, il tema maschile crudele, temi femminili un po’ coquets… Nella sonata in si bemolle maggiore, con lo stesso punto di partenza, l’evoluzione è più sfumata, è proprio l’ultimo Mozart, anche se lui non lo sapeva. I tre movimenti non hanno dei contrasti molto evidenti. I temi del primo tempo sono costruiti sempre con lo stesso materiale»
Nella sua interpretazione quanto rilievo ha dato agli elementi contrappuntistici presenti nelle sonate?
«Molto, ed è uno degli elementi che danno linfa vitale. Ovvero, in nessuna di queste sonate domina il basso albertino, così come non c’è una scrittura esclusivamente contrappuntistica, ma anche nei punti in cui c’è l’accompagnamento mi piace pensare che il risultato all’ascolto possa essere quello del contrappunto come un elemento vitale, non mero accompagnamento. E che tutti gli elementi armonici verticali portassero ad un’azione è stato uno dei miei obiettivi»
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