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Opera • La cupa opera verdiana fa il suo debutto al Teatro Massimo. Ottima prova del cast tra cui spicca Leo Nucci, Stefano Ranzani dirige vigoroso
di Monika Prusak
Per la prima volta al Teatro Massimo di Palermo è andata in scena l’opera I due Foscari di Giuseppe Verdi. Una vicenda particolarmente cupa e lugubre, in cui il figlio, Jacopo Foscari, accusato di un duplice omicidio, muore in seguito a una decisione del Doge, suo padre, freddo esecutore delle rigide leggi veneziane. Vi è quindi un doppio dramma di padre e figlio, a cui si aggiunge la tragedia della giovane moglie di Jacopo, Lucrezia. Quando Verdi decise di occuparsi del soggetto tratto dall’omonimo dramma di George Byron, trovò la storia naturalmente triste e avvertì da subito il rischio di farne «un mortorio» di «un color troppo uniforme dal principio alla fine». L’opera presenta, in effetti, un andamento piuttosto monotono, al quale contribuiscono i tre protagonisti uniti nello stesso dolore, che hanno come avversario un unico personaggio, Loredano, il principale accusatore di Jacopo. Non furono molto d’aiuto le prove librettistiche di Francesco Maria Piave: l’opera risulta omogenea e prevedibile sin dall’inizio, riservando qualche momento più coinvolgente solamente nelle parti vocali.
Si adatta perfettamente all’atmosfera dell’opera la messa in scena di William Orlandi e i costumi che la rendono ancora più scura e opaca. Nebbia, oscurità, panelli mobili che aprono e chiudono il secondo piano dell’azione e una scalinata: questo ambiente costruisce un’immagine troppo fosca del Palazzo Ducale di Venezia, che si ravviverà soltanto nello scenario onirico del ballo in maschera del terzo atto. In questa oscurità sono pochi gli oggetti luminosi: il trono e le vesti del Doge, che alla fine egli toglierà in segno di forzata rinuncia alla carica, rimanendo in una semplice vestaglia bianca. La regia di Joseph Franconi Lee opta per una staticità stancante che favorisce il tempo lento dell’azione; i cantanti rimangono, infatti, pressoché immobili nella maggior parte delle scene, esclusa la scena della prigione del secondo atto e le ultime scene del Doge. Si apprezzano le coreografie di Raffaella Renzi, che donano alla scena del ballo in maschera un caratteristico colore veneziano.
È stata una serata di voci importanti, iniziando dal tenore Piero Pretti nei panni del giovane Jacopo, la cui voce ha affrontato con successo l’esigente scrittura verdiana. Inizialmente poco dinamico, nelle scene della prigione Pretti acquista una nuova energia e la sua recitazione diventa più viva e convincente. Sorprende la possente e tecnicamente perfetta voce del soprano Lucrecia García nel ruolo di Lucrezia. La cantante risulta tuttavia poco coinvolta drammaticamente, rendendo la protagonista femminile immutata dall’inizio alla fine. Tra i personaggi spiccano i due bassi Luiz-Ottavio Faria nel ruolo di Loredano e Giovanni Lo Re come Servo del Doge; ma è proprio il Doge, interpretato dal baritono Leo Nucci, ad aver dominato la scena in maniera a dir poco esemplare. Il dramma di un padre sovrano si avverte già nella prima entrata di Nucci che riflette in fondo alla scena, spiccando con l’oro del suo manto sullo sfondo profondamente oscuro. Lo stesso Doge apparirà freddo e deciso nelle scene del Consiglio, ma caldo e paterno tra le grigie mura della prigione, per culminare in uno strazio indescrivibile alla notizia che suo figlio, ormai morto, in realtà era innocente. Ma non finisce qui, perché il Doge si toglierà con dignità le sfarzose vesti e cadrà come un semplice e infelice padre sulla scalinata. La voce di Nucci si tinge di colori diversi, differenziando nelle infinite nuances i sussurri, i pensieri e le emozioni. Su tutto giace la ferma mano di Stefano Ranzani sul podio dell’Orchestra del Teatro Massimo, che misura con maestria le poco esaltanti parti orchestrali. È risultato ben affiatato il coro maschile dei Consiglieri e della Giunta che ha contribuito alla cupa atmosfera del dramma.
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