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Diario londinese/2 • Il direttore russo, principale conduttore della formazione inglese fino al 2015, sul podio con il contralto Anna Larsson, solista nei wagneriani Wesendonk Lieder
di Attilio Piovano
Dopo una giornata di onnivora full immersion culturale – tra musei e mostre a Londra non c’è che l’imbarazzo della scelta, la sera di venerdì 14 dicembre varchiamo nuovamente la soglia della Royal Festival Hall. Questa volta protagonista è la London Philharmonic Orchestra. A dirigerla Vladimir Jurowski che ‘apre’ nel segno di Brahms e si tratta dell’Ouverture Tragica op. 81. Jurowski ne dà una lettura iper analitica, imprimendo notevole vigore ritmico all’esordio e poi lasciando assaporare la pasta dei legni, ponendo bene in luce l’incisiva chiarezza degli archi e così pure la luminescente brillantezza degli ottoni. L’interpretazione di Jurowski consente di evidenziare al meglio (quasi una lezione di stile) i legami innegabili con la Prima Sinfonia e più ancora con le stupende Variazioni su un tema di Haydn; ed è un piacere constatarlo all’ascolto. Appena qualche estenuazione di troppo nel fugato che – soprattutto – sezionato in modo così puntuale e dettagliato, finisce per perdere un poco in slancio, stemperandosi (a tratti) in un che di lievemente didascalico. Si resta poi in ambito germanico con i sublimi e wagneriani Wesendonck Lieder, succulento anticipo sui festeggiamenti del 2013 per il bicentenario dell’autore del Ring. Solista di lusso l’ottimo e sempre impeccabile contralto Anna Larsson, tante volte ammirata per la bellezza del timbro: caldo e ambrato, nonostante qualche occasionale opacità. In Stehe Still restituisce al meglio quel senso di irrequietezza sotteso alla pagina, affrontandone i trasalimenti con partecipe emozione. Così pure la Larsson riesce a trasmettere il senso dell’arcano che promana da Im Treibhaus. Ammirevole la trasparenza ottenuta da Jurowski che ‘tiene’ l’orchestra in perfetto equilibrio (si tratta dell’arrangiamento di Hans Werner Henze). E Träume suggella la celebre raccolta poetica con colori di toccante purezza.

Seconda parte di serata nel segno di Bruckner. In programma la Prima Sinfonia (nella versione del 1877, la cosiddetta versione di Linz). Anche in questo caso Jurowski, fin dal vasto Allegro, tende a privilegiare i singoli timbri, anziché agglutinare, mettendo in evidenza una quantità ammirevole di dettagli. Lettura legittima e senza dubbio non priva di fascino, anche se non sempre funzionale; il rischio di una certa frammentarietà, infatti, è dietro l’angolo. Dell’Adagio si ammirano svariate prelibatezze coloristiche, mentre per contro lo Scherzo, impregnato di echi popolareggianti, si presenta vigoroso e incisivo comme il faut, assumendo addirittura un che di demoniaco. E ci sta bene, nonostante il candido e pio Bruckner, suo malgrado, non lo avesse di certo messo in conto. Ma è insito in partitura e Jurowski non ha fatto nient’altro che rendercene partecipi. Quindi il Finale, coi suoi ritmi di marcia ed il suo incedere reboante e altisonante, pagina a onor del vero tanto inutilmente verbosa e dispersiva quanto è invece essenziale lo Scherzo. Ma tant’è, Bruckner è anche questo, prendere o lasciare. Ottoni superbi, timpanista da dieci e lode e la bellezza suadente degli archi che ci accompagna passo passo. Uscendo dalla sala mentre raggiungiamo l’Underground ci assale un filo di invidia per i londinesi doc che amando la classica possono contare sulla presenza in città di ben sei orchestre sinfoniche (se non andiamo errando). E tutte di altissimo livello. Eppure dai loro sguardi pare di intendere che la faccenda sia del tutto normale. Very British Understatement.
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