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Opera • Al Teatro Regio ripresa dello spettacolo di Daniele Abbado, di impianto tradizionale ma non del tutto privo di ingenuità interpretativa. Notevole il cast, diretto da Renato Palumbo e dominato da Michele Pertusi
di Francesco Lora
Q uante volte Nabucco? Nella stagione del bicentenario di Giuseppe Verdi, l’opera è in cartellone dappertutto: Bologna, Cagliari, Macerata, Milano, Padova, Palermo, Parma, Pisa, Ravenna, Roma, Rovigo, Sassari e Verona. Il fatto è curioso e anomalo: spesso identificato col più celebre dei cori d’opera, «Va’, pensiero, sull’ali dorate», l’intero Nabucco ha in realtà una circolazione ristretta, dove ogni anno le recite areniane fanno da sole la parte del leone. Nell’agenda 2012/13, invece, può capitare che a distanza di pochi giorni e di pochi chilometri un Nabucco vada in scena alla Scala di Milano in un nuovo allestimento firmato da Daniele Abbado, e che un altro Nabucco vada in scena al Regio di Parma in un diverso allestimento firmato dallo stesso regista. Si tratta, in questo secondo caso, dello spettacolo con scene e costumi di Luigi Perego, battezzato al Municipale di Reggio Emilia nell’ambito del Festival Verdi 2008: una produzione agile, semplice ed economica, dove un’unica struttura scenica rotante fa da tempio, palazzo e carcere, ed evoca poi efficacemente, nel dolente coro dell’atto III, il Muro del Pianto.
In questo spazio, l’azione si svolge attenendosi letteralmente a versi e didascalie del libretto; con un’eccezione: mentre i personaggi indossano costumi tradizionali, il coro veste gli abiti di una comunità ebraica negli anni tremendi dell’Olocausto. L’idea, ormai non più originale ma di sicuro impatto emotivo, regge per qualche scena e va poi a impantanarsi: nel Nabucco la massa corale non fornisce infatti un commento impersonale dall’esterno, come nel modello del teatro classico, ma personifica in carne e ossa ora il popolo ebreo ora quello babilonese; nessun cambio d’abito distingue invece qui i due gruppi contrapposti, sicché, nei passi teatrali dove i babilonesi chiedono lo sterminio degli ebrei, si vedono in realtà questi ultimi reclamare il loro stesso annientamento. Un’ingenuità interpretativa che suscita ilarità.
Detto della regia, altro e meglio resta da dire a proposito della musica nelle attuali recite parmigiane (4-13 marzo). C’è innanzitutto un direttore coi fiocchi, Renato Palumbo, che non solo conosce nei minimi dettagli la partitura del Nabucco, ma è anche un esperto dell’opera italiana dell’Ottocento nel suo complesso, nonché un intenditore di voci e un provetto accompagnatore del canto. Ciò si traduce in un’esecuzione integralissima (ossia senza lo scempio di strette e cabalette scorciate), nella messa a punto di tempi incalzanti, e anche – per chi vada a caccia di novità – nell’accompagnamento al «Va’, pensiero», dove il battere di ciascuna misura echeggia un poco più marcato del consueto, e dà così un chiaro punto di riferimento ritmico accanto allo scaltrito uso del rubato: i piccoli segreti delle vecchie volpi.
Peccato, però, che intorno a un direttore tanto chiaro nelle intenzioni e tanto amorevole nel gesto sieda un’orchestra oltremodo modesta: la Filarmonica del Teatro Regio di Parma, costituita da pochi mesi, aggiunge all’inesperienza del lavoro insieme anche falle tecniche che interessano i singoli professori, dalle frasi spezzate per esaurimento del fiato al gioco dinamico tutto fragoroso per gli ottoni e tutto timoroso per gli archi, fino ai frequenti sfasamenti ritmici persino tra compagni di leggio. Lampante è la dedizione di Palumbo, altrettanto lampante la carenza dei suoi primi interlocutori. Valida è invece la prova del Coro, preparato da Martino Faggiani: nel suo amalgama timbrico e nel suo franco porgere si coglie una fragranza popolare e padana, genuina e appassionata, il tutto nel segno venerato di Verdi.
La compagnia di canto ha la sua perla più preziosa in Michele Pertusi, che appena concluse le recite del Simon Boccanegra a Vienna passa alla parte di Zaccaria esibendo uno stato vocale di grazia: il lustro dello smalto timbrico, lo svettare del registro acuto, l’omogeneità dei registri, la linea vocale insieme legatissima ed energica sono, in questa occasione, quelli dei suoi momenti migliori. L’attore non è da meno, e superbo è in particolare l’accento ieratico, espresso ora nella protervia del fanatismo profetico, ora nella benevolezza della paternità spirituale. Una simile prova fa ombra a quella del collega Roberto Frontali, titolare della parte del protagonista: la voce, ricca di timbro e risonanza, è tuttavia sempre quella di un baritono vilain, poco propenso alle sfumature e al cantar nobile degli eroi verdiani; il Nabucco che ne deriva non è dunque regale e terribile, forte della retorica del dominio e della conversione, bensì rude e timoroso, votato fin da subito alla sopravvalutazione di sé e alla sconfitta.
Il piglio della dominatrice balena invece in gola ad Anna Pirozzi, il giovane soprano che sta facendo man bassa di ruoli verdiani tra Bologna e Parma, e che al Regio dà finalmente alto esempio di sé come Abigaille: la vocalizzazione non è quella rifinita di una belcantista, ma soprattutto il registro acuto schiocca saldo, potente, luminoso e modulato, dimostrando un bagaglio tecnico di pregio; ammirevole è a sua volta la ricerca espressiva, e una gioia inedita è ascoltare da una madrelingua italiana i versi tante volte bistrattati dai soprani, slavi o nordamericani, oggi egemoni della parte. L’Ismaele di Sergio Escobar sprizza romantica amorosità già con la solare schiettezza del suo timbro tenorile, raggiante nel registro acuto e sensuale in quello centro-grave, nonostante la foschia che copre i tentativi di mezzavoce. E una Fenena di sicuro riferimento è infine Anna Malavasi, attrice misurata che disegna il personaggio innanzitutto col fervido ardore e il soffice velluto di un timbro quasi contraltile.
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