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Opera • Al Teatro alla Scala, Valery Gergiev si è impegnato in un’impresa rischiosa: resuscitare la prima versione dell’opera verdiana. Degna di elogio in ogni caso la sua direzione, meno apprezzabili la regia di Giorgio Barberio Corsetti e la prestazione della poco omogenea compagnia di canto
di Luca Chierici
Q uando, al termine di una rappresentazione teatrale, il pubblico indirizza in maniera più che evidente la propria disapprovazione nei confronti del’apparato registico-scenografico e applaude in maniera contrastata il direttore e i cantanti tanto da convincere i maestri delle cerimonie a calare risolutamente il sipario e a ritenere poco opportune le cosiddette “uscite singole” dei protagonisti, non si può certo parlare di una buona riuscita dello spettacolo, in questo caso un nuovo Macbeth allestito sotto la guida di Giorgio Barberio Corsetti e diretto da un fuoriclasse come Valery Gergiev, protagonista una compagnia di canto che non annoverava nomi particolarmente noti. La reazione del pubblico era parzialmente giustificata, ma forse non esclusivamente per i motivi che lo stesso credeva di addurre a testimonianza del dissenso. Si è trattato della manifestazione di uno stato di scontentezza che si è via via aggravato nel corso della serata e che pensiamo sia da individuare più nella scelta da parte di Gergiev di resuscitare la “versione 1847” dell’opera che nel dettaglio di una regia non certo memorabile o nei limiti della compagnia di canto. Le prime versioni delle opere verdiane sono in genere recuperate nel contesto di festival specializzati (come è stato il caso di quello di Martina Franca, che aveva proposto l’Ur-Macbeth nel 1997) perché l’interesse nei confronti di questo tipo di recupero è eminentemente storico, non dettato da una scelta che lo stesso autore aveva rinnegato e sostituito attraverso raggiungimenti di più alto livello artistico.
Macbeth andò in scena per la prima volta alla Pergola di Firenze il 14 marzo del 1847 e fu poi ampiamente riveduto per l’esecuzione parigina del 21 aprile 1865. Nella prima versione vi è già quasi tutto, e sopra ogni cosa l’originalissima concezione verdiana del significato della parola, del canto e dell’azione scenica che fanno di questo lavoro un unicum nella pur variegata produzione del compositore. Mancano però molti dettagli che fanno pensare a una drammaturgia musicale più grezza, manca ad esempio il fugato che caratterizza la scena della battaglia nella seconda versione e che risolve molto meglio la tensione felicemente guerresca del momento, e manca ancora l’ottimistico coro finale, che sostituisce il mesto spegnersi di Macbeth, quasi che anche per questo lavoro si possa parlare, come per il rossiniano Tancredi, di un “finale lieto” al posto di quello tragico originale. Per le recite di quest’anno Gergiev ha contaminato la versione 1847 inserendo solamente l’aria della Lady «La luce langue» e la seconda versione del coro «Patria oppressa», ambedue risalenti al rifacimento del 1865. Nel suo rivivere queste emozioni primigenie del teatro verdiano, Gergiev è stato del tutto conseguente e ha centrato perfettamente il clima del Macbeth 1847 sottolineandone i forti contrasti e la drammaticità genuina e meno raffinata rispetto alla seconda versione. Che poi si sia scambiato questo tipo di lettura con una presunta mancanza di comprensione da parte del direttore dei più sfumati contrasti propri del “secondo Macbeth” è conseguenza di un giudizio affrettato e per nulla motivato da parte del pubblico. Lode quindi a Gergiev non per la scelta di programmazione ma, questo sì, per averla portata a termine in maniera del tutto coerente con i presupposti.
Nell’ambito del melodramma e dei suoi cultori diciamo così “esclusivisti”, si utilizza spesso un linguaggio calcistico che ricorda l’attitudine di molti nostri compatrioti a citare a memoria intere formazioni di squadre che hanno rappresentato un punto di riferimento nella storia di questo sport. Adeguiamoci, quindi, e ricordiamo che la Scala ha dagli anni ’70 portato sulle scene Macbeth con grande successo appellandosi a team del genere Abbado-Cappuccilli-Verrett-Tagliavini-Ghiaurov oppure Muti-Bruson-Guleghina-Alagna-Colombara, per non risalire più indietro ai tempi di De Sabata e della Callas e per non evocare altre Lady famosissime come la Gencer o la Dimitrova. Nelle stagioni più recenti ci siamo oramai abituati ad ascoltare innanzitutto cantanti e non interpreti (e questa è caratteristica comune oggi sia a Franco Vassallo-Macbeth che a Lucrecia Garcia-Lady). È ovvio che, in mancanza di un’intelligente e soprattutto viscerale interpretazione del ruolo, l’attenzione venga del tutto concentrata sulle voci e, nel nostro caso, del primo protagonista si notava a tratti una emissione forzata e non senza mende (l’entrata in «Giorno non vidi mai», piccolo incidente di percorso). Va dato atto a Vassallo di avere affrontato con successo il momento culminante di «Pietà, rispetto, onore», premiato dal pubblico con un convinto applauso. Della Garcia si sono notate sia le disomogeneità nei passaggi di registro che, soprattutto, la totale inespressività e scarsa padronanza del ruolo. Tanto che, nella famigerata scena della lettera, risolta dal regista con una prosaica consultazione di un sms sul telefonino, la Garcia ha adeguato senza molti sforzi l’aulicità dell’interpretazione classica a un molto più banale fraseggio adatto a un’operazione compiuta di fretta, magari effettuata distrattamente mentre si è alla guida nel traffico convulso o al supermarket nel momento del conto alla cassa. Fischi le sono stati indirizzati al termine della scena del sonnambulismo. Di gran lunga migliori il Banco di Štefan Kocán, il Macduff di Stefano Secco e soprattutto il Malcolm di Antonio Corianò, che ha meritato l’unico altro applauso a scena aperta di tutta la serata. Ma forse avremmo dovuto parlare per prima cosa del coro, che a parte qualche asincronia con l’orchestra dovuta sicuramente alla novità della prima esecuzione ufficiale, ha svolto perfettamente il proprio ruolo di importanza primaria e ha davvero sopperito alla mancanza di partecipazione profonda dei cantanti protagonisti.
L’attesa per la regia e le scene di Giorgio Barberio Corsetti (le seconde allestite con Cristian Taraborrelli, coautore anche dei costumi con Angela Buscemi) è stata piuttosto deludente per l’eccessiva commistione di elementi eterogenei che ci sono sembrati in contraddizione tra loro e non giustificati dalle necessità dello svolgimento del dramma. Al di là delle intenzioni programmatiche, quasi tutte condivisibili ed espresse nell’articolo-intervista contenuto nel programma di sala, la realizzazione scenica è parsa alquanto confusa. La costruzione che simboleggia il castello di Macbeth ha sì dei richiami all’architettura razionalista, ma assomiglia più a uno stabilimento balneare o colonia che dir si voglia in una località adriatica negli anni ’30 che alle costruzioni che si individuano nelle piazze dei quadri di De Chirico. Molte le “trovate” che oramai inflazionano il teatro d’opera, dalla comparsa di controfigure infantili dei personaggi (un piccolo Macbeth sadico che pugnala il pupazzo del cuore) alla realizzazione della processione di entrata della corte di Duncano attraverso il corridoio centrale della platea del teatro (il ricordo va all’arrivo – con percorso ancora più lungo e tortuoso – di Carlo X e del suo numeroso seguito nel rossiniano Viaggio a Reims, regia di Ronconi). Proiezioni video come di consueto: i faccioni in bianco e nero di Macbeth e più avanti persino di Mussolini e Hitler sono del tutto superflui, mentre più indovinate sono le linee di pennarello digitale alla Photoshop: ghirigori rossi, ovviamente, per gli omicidi di Macbeth e blu per le trame assassine della Lady. Per altre trovate, tipo lo stato di ubriachezza molesta dei partecipanti alla scena del Convito nell’atto secondo o la distribuzione del rancio ai poveri in fila che cantano «Patria oppressa», lasciamo che sia lo spettatore a trarne le personali impressioni.
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