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Concerti • Per l’Accademia di Santa Cecilia un’esecuzione del capolavoro bachiano fortemente drammatica e incentrata sulla dimensione umana, diretta da Antonio Pappano con un ottimo cast vocale
di Giuseppe Pennisi
[IL] programma di sala della Passione Secondo Matteo BWV 244 di Johann Sebastian Bach, eseguita nella stagione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia il 13, 25 e 26 marzo con la direzione di Antonio Pappano, include, oltre alla consueta iconografia del barocco tedesco (per situare il lavoro nel tempo in cui venne concepito ed eseguito per la prima volta), alcuni fotogrammi del film Il Vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Ad una prima veloce scorsa del programma, non abbiamo immediatamente compreso il nesso tra i fotogrammi e la lettura che Antonio Pappano avrebbe dato della partitura. Chi scrive ricorda di aver visto il film di Pasolini una prima volta a Roma nel 1964, quando uscì nelle sale, ed una seconda nel 1969 in una grande sala cinematografica del Cairo, dove si poteva sentire quasi fisicamente l’emozione con cui il pubblico (per l’80% musulmano, il resto in gran misura cristiano copto) seguiva il film: applausi a ciascun miracolo, grida (di riprovazione) contro i Sacerdoti, Erode e Pilato, ed una vera e propria ovazione alla Resurrezione.
Tra le Passioni messe in musica da Bach, quella secondo Matteo è probabilmente la più “umana” (così come il Vangelo da cui è tratta): il centro focale – ha scritto efficacemente Stefano Catucci in un saggio sul tema – è «la dimensione umana, troppo umana dell’“ingiuria”»; per un’epoca dalla coscienza religiosa così radicata come quella di Bach, «il racconto di un Dio ingiuriato, flagellato, crocifisso, abbandonato persino dal Padre, rappresentava un autentico rovello tragico». È lo stesso «rovello tragico» posto al centro del film di Pasolini di quasi cinquant’anni fa. Antonio Pappano ha un temperamento fortemente drammatico, anche in ragione dal suo approdo al sinfonismo dopo lunghi periodi in teatri d’opera (esperienza che, peraltro, prosegue con il suo incarico al Covent Garden), quindi nella sua lettura della partitura enfatizza (come fa il film di Pasolini) questa «dimensione umana». Molto più di alcune importante registrazioni discografiche (come quella diretta da John Eliot Gardiner, che accentua le preziosità barocche, o quella di Nikolaus Harnoncourt, anch’essa squisitamente settecentesca o quella quasi epica di Wilhelm Furtwängler).
Non siamo alle prese di un’esecuzione semiscenica (oppure direttamente scenica), come avviene spesso in teatri tedeschi specialmente in periodo pasquale, ma di una produzione che rispetta rigorosamente la disposizione dell’organico impiegato nella Thomaskirche di Lipsia l’11 aprile 1727: l’orchestra ed il coro sono divisi in due parti (allora, pare, si lavorò con due orchestre e due cori), il concertatore al centro attorniato dai solisti e nella prima parte un vasto coro di voci bianche (quasi 60 elementi) sta a mo’ di fondale. La vis dramatica si avverte sin dall’introduzione orchestrale e dal coro che chiama alla contemplazione del sacrificio e della pietà di fronte alla contemplazione della croce ed ha subito riscontro nelle brevi domande del secondo coro in cui si avverte lo sgomento della folla che, con l’inizio della Passione, perde i propri principali punti di riferimento. Pappano sottolinea gli accordi di settima diminuita e le brusche modulazioni delle profezie di Gesù a proposito della propria imminente passione e le giustappone con la musica relativamente più lieta dell’istituzione dell’Eucarestia.
Anche se non si può parlare di vero e proprio sviluppo psicologico dei personaggi – Bach segue rigorosamente i capitoli 26 e 27 del Vangelo secondo Matteo con testi di arie interpolati da Picander (pseudonimo di Christian Heinrich Henrici) – le dramatis personae risultano come scolpite: dall’Evangelista-narratore (si sono alternati due tenori nelle tre repliche: il 25 marzo era Cornal Frey), a Cristo (il baritono Matthias Goerne), ìl Sommo Sacerdote (il basso-baritono Peter Mattei), Ponzio Pilato, Giuda e secondo Sommo Sacerdote (Mirco Palazzi), le due protagoniste femminili in vari ruoli (il soprano Sally Matthews ed il contralto Ann Hallenberg) e Carlo Putelli nel breve ma incisivo ruolo del testimone. Pur in un’esecuzione quasi ecclesiastica, il vasto numero di personaggi – molto più numeroso che nelle altre Passioni di Bach – fa quasi scivolare naturalmente la partitura dalla dimensione oratoriale a quella di un dramma in musica. Tanto più che gran parte delle voci vengono proprio dal teatro d’opera ed è soprattutto lì che perseguono la loro carriera. Un cast di alto livello in cui tutti, con l’eccezione di Sally Mattews, hanno una perfetta dizione tedesca (il lavoro è stato eseguito senza sovrattitoli).
Nelle arie, gli strumenti (sia in assolo che insieme) sono andati di perfetto concerto con le voci. Oltre alle eccellenti melodie e al contrappunto, nella produzione ceciliana vengono messi in risalto i lati spettacolari della composizione rispetto al testo. Come quando, ad esempio, mentre il contralto canta il suo pianto dirotto e scoppia in lacrime, i flauti iniziano a suonare uno staccato che somiglia ad un acquazzone. O quando i violini intonano un motivo violento per simboleggiare la flagellazione. Nel passaggio sul «serpente», marcato da una melodia sinuosa e ondeggiante. Oppure quando la folla grida «Crocifiggilo» due volte con un tema dissonante e frastagliato a cui fa da contrasto il quieto e meditativo intermezzo a significare la calma interiore delle Fede.
Per tornare al tema iniziale di questa nota, Pappano, il cast, l’orchestra ed i cori hanno dato una lettura quasi pasoliniana dell’umano, troppo umano di questa Passione che ha inchiodato il pubblico per tre ore e mezzo (intervallo compreso), sino a quando è esploso in una grande ovazione.
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