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Opera • Il Theater an der Wien ha ospitato una rara esecuzione dell’opera di Porpora, composta per alcuni tra i più acclamati cantanti dell’epoca. Tra qualche pecca, un sensazionale debutto: quello di Franco Fagioli nella parte che fu di Farinelli
di Francesco Lora
N egli anni ’20-30 del Settecento, Londra fu una vetrina canora con pochi termini di paragone: che si trattasse del teatro gestito da Händel o di quello, concorrente, dell’Opera of the Nobility, l’obiettivo era in tutti i casi quello di sottrarre ai teatri italiani i loro cantanti più acclamati, e di ricostituire compagnie di livello stellare in riva al Tamigi. Rispetto a quella di Venezia, Roma e Napoli (ma anche di Torino, Parma e Bologna), la nobiltà londinese aveva però difficoltà a comprendere e apprezzare i libretti in italiano; soprattutto per questo motivo, nei drammi per musica dati in Inghilterra i recitativi sono ridotti al minimo, e le arie, più espressive che declamatorie, puntano a illustrare nella musica il senso letterario (a tutto vantaggio della melodia, qui accattivante più che mai). L’eroe di questo procedimento è il già citato Händel.
Ma chi voglia approfondire il fenomeno farà bene ad allungare lo sguardo verso altri compositori e verso titoli non händeliani. Un esempio insigne è il Polifemo di Nicola Porpora, creato nel 1735 nel teatro e con la compagnia che Händel non era riuscito a conservarsi o aggiudicarsi: si allude alla sala di Haymarket, e ai soprani Carlo Broschi detto il Farinelli e Francesca Cuzzoni, ai contralti Francesco Bernardi detto il Senesino e Francesca Bertolli, e infine al basso Antonio Montagnana. Il libretto dell’opera, dovuto a Paolo Antonio Rolli, è amabilmente ridicolo nel rimescolare le tre diverse storie di Aci e Galatea e Polifemo, di Polifemo e Ulisse, e di Ulisse e Calipso. Nel contempo, è però un libretto sagace ai fini delle convenienze teatrali: la compresenza di cinque grandi personaggi permette la pacifica convivenza (o l’equilibrata competizione) tra cinque divi del canto; la parte di Polifemo, la più scarsa di arie, è risarcita dal titolo; il cantante più in vista, Farinelli, è segretamente favorito col procedimento di farlo uscire in scena per ultimo, quando l’attesa dell’uditorio è ormai maturata fino allo spasmo. Quanto alla musica di Porpora, è un capolavoro di sapienza napoletana speziata con un’ouverture alla francese e temi pastorali; soprattutto, è un inanellamento di arie favolose per invenzione e varietà, e per adesione, caso per caso, alle caratteristiche di una compagnia di canto tanto lussuosa quanto eterogenea (la Cuzzoni, educata allo stile bolognese di Francesco Antonio Pistocchi, aveva un indirizzo stilistico differente da quello del Farinelli, educato alla scuola partenopea di Porpora stesso; il Senesino, a sua volta, era più anziano del Farinelli di una generazione, e avvezzo a una scrittura non più d’avanguardia).
L’ascolto del Polifemo di Porpora non è più un’impresa impossibile: il defunto festival barocco di Bibbiena ne riportò in scena, nel 2004, una versione decorosa per quanto tagliatissima; un altro allestimento è andato in scena, nel dicembre scorso, al Festival invernale di Schwetzingen; un’ulteriore ripresa, con parallela incisione discografica, è prevista nella prossima stagione del Théâtre des Champs-Élysées di Parigi. In mezzo, l’opera è stata eseguita il 22 febbraio, in forma di concerto e in una veste musicale ancor diversa, nel Theater an der Wien di Vienna; tra qualche menda, ma soprattutto con una punta di diamante difficile da eguagliare, spiace che proprio da questa esecuzione non abbia avuto principio la discografia ufficiale dell’opera. Ma andiamo con ordine.
Le mende si connettono perlopiù a Rubén Dubrovsky, puntuale direttore del Bach Consort Wien (22 elementi in tutto, su strumenti originali), ma concertatore del quale occorrerebbe arginare talune ingenuità o fantasie interpretative. Quand’anche passi per i tagli inflitti ai recitativi, meno tollerabili sono quelli che colpiscono numerose arie, comprese quelle intoccabili per ragioni drammaturgiche: per esempio «Ascoltar non ti voglio», l’aria nella quale Galatea risolve di amare Aci in sprezzo all’orgoglio delle altre nereidi, ossia anche la sospirata aria finale dell’atto I ove la Cuzzoni poteva sommare agli applausi per sé quelli per il calare della tela. Una scelta infelice è poi quella d’introdurre ovunque – persino nel fugato dell’ouverture – un armamentario di strumenti a percussione, estranei al dettato della partitura e alla prassi esecutiva dell’epoca: tamburo, tamburello, nacchere, macchina del tuono e della pioggia giovano solo a esasperare ritmi delicati e a contaminare melodie squisite. Con i primi tre strumenti si vorrebbe sottolineare l’origine popolare di alcune melodie; ed è proprio qui che, dalla buona intenzione, sorge un equivoco grave: Porpora non intendeva certo aprire la propria opera al repertorio folklorico, bensì trarre spunti da questo per la descrizione del mondo pastorale, nel contempo dirozzandone il carattere e idealizzandone l’origine. In altre parole: se Porpora aveva insegnato le buone maniere al popolare, Dubrovsky tenta di insegnare quelle cattive a Porpora.
Detto delle mende, il discorso passa alla punta di diamante, ossia al controtenore Franco Fagioli nella parte di Aci. Insignito del XXX Premio Abbiati come miglior cantante in Italia, dopo l’entusiasmante apparizione al Festival della Valle d’Itria, il fenomeno-Fagioli sta rapidamente contagiando il mondo musicale: testimone ne è in particolare la doppia mirabolante interpretazione, come Arbace, dell’Artaserse di Johann Adolf Hasse (a Martina Franca: uno spettacolo da spellarsi le mani) e di quello di Leonardo Vinci (a Nancy, in forma scenica, e in mezza Europa, in forma di concerto; oltre che in CD, per l’etichetta Virgin: dopo sei mesi si parla di 25.000 copie vendute, una cifra da capogiro per le medie attuali). Il fenomeno è quello di una vocalità che sfugge alle classificazioni di registro e alle (fondate) riserve sull’attendibilità storica dei falsettisti e sulle loro facoltà naturali e tecniche: Fagioli sale e scende con generosità lungo un’estensione di oltre tre ottave, conservando omogeneità timbrica, corpo e risonanza impressionanti; l’agilità è rapida, granita e mordente come a memoria d’uomo ancora non s’era ascoltata da un controtenore; la rimarchevole lunghezza dei fiati e il loro abile dosaggio consentono un gioco dinamico, messe di voce e passaggi immacolati; e c’è poi una sensibilità artistica che sconfina nell’erudizione, ora nella genialità inventiva di ogni variazione, ora nei trilli che – seguendo un’antica prassi oggi trascurata – ornano le semiminime a fine frase. Solo la giustezza della pronuncia e il garbo dell’espressione meriterebbero d’essere meglio rifiniti: ma, nell’orizzonte descritto, paiono minuzie e nulla più. Manco a dirlo, questo debutto di Fagioli come Aci ha i tratti di uno tra i massimi eventi della stagione artistica corrente: ne fanno fede le bocche aperte e i minuti di applausi che, dopo ogni sua aria, sospendono l’esecuzione; al termine dell’ipnotica «Alto Giove, è tua grazia e tuo vanto», da un palco qualcuno lo apostrofa con una parola sacra: «Farinelli». E questa recensione potrebbe finire qui.
Anche il resto della compagnia di canto merita tuttavia commento, a partire dal soprano Laura Aikin che, come Galatea, presenta un registro acuto più acidulo e meno sicuro di un tempo, ma ha ancora dalla sua la levità d’emissione e l’impegno interpretativo. Quest’ultimo latita invece nel mezzosoprano Mary-Ellen Nesi: benché in ottima forma vocale, ella sembra leggere lo spartito come se si trattasse della prima volta, non riuscendo a sciogliere la parte di Calipso in un’esecuzione ragionata e disinvolta. La compresenza di Fagioli è poi una gran sfortuna per l’altro controtenore, Xavier Sabata: nel suo Ulisse si manifestano le caratteristiche – timbro spento, estensione difficoltosa, volume modesto, accento flemmatico, vocalizzazione a tratti caricaturale – che affliggono di norma i falsettisti. Più baritono ammiccante che basso terrificante, Christian Senn conduce in porto con onore l’esigua e grottesca parte di Polifemo, mentre farà piacere riascoltare il giovane soprano Hannah Herfurtner, la comprimaria Nerea, che nell’unica aria lasciatale mostra luminosità timbrica e un porgere elegante.
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Bellissima recensione , ho ascoltato Fagioli nell’Artaserse a Nancy e in concerto. Un grande interprete con una sensibilità non comune, un artista che emoziona il pubblico che ogni volta gli tributa ovazioni. Alto Giove nella sua interpretazione è veramente commovente.
marisa bonetto