Concerti • Grande successo per il ritorno a Milano dell’orchestra fiorentina e del suo direttore principale, con un programma nel nome di Mahler e Čaikovskij ed un omaggio a Verdi
di Luca Chierici
Un convinto applauso, un forte abbraccio da parte di tutto il teatro ha salutato la conclusione del bellissimo concerto che ha finalmente visto il ritorno alla Scala dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino diretta da Zubin Mehta, dopo ben diciotto anni di assenza. Un’assenza inspiegabile, che non vogliamo indagare attraverso complicate dietrologie, come se non bastassero quelle che ci affliggono quotidianamente in questo periodo. E anche la presenza di Mehta alla Scala non è stata così frequente in questi ultimi tempi, benché ricordiamo una sua apparizione alla testa della Filarmonica nella stagione 2009-2010 e la verdiana Jérusalem del 2001. Ma la nostra memoria va più indietro ancora, all’indimenticabile ciclo brahmsiano del 1983 che non venne adeguatamente sottolineato dalla critica e che vide Zubin Mehta affiancato, nell’integrale delle sinfonie e dei concerti, da solisti del livello di Ashkenazy, Kremer e Yo-Yo Ma.
Legato a Claudio Abbado e a Daniel Barenboim da rapporti di fraterna amicizia e da comuni radici professionali, Mehta sembra essere rimasto, al pari di quelli, un eterno giovane che comunica un grande entusiasmo per la musica che dirige ed è la testimonianza vivente di come la sua generazione abbia saputo innovare pur rispettando e raccogliendo l’eredità dei grandi predecessori, soprattutto di coloro che gravitavano nell’area viennese negli anni ’50 e ’60. Nella sua autobiografia, Zubin Mehta racconta con emozione la lettura della Prima sinfonia di Mahler, a Los Angeles nel 1960, sotto la guida di Bruno Walter. Questa partitura affascinante è rimasta da allora nel repertorio del direttore, che ha peraltro dedicato al grande musicista un’attenzione ben più vasta, fino a giungere alla proposta quasi integrale del ciclo sinfonico. Nel Mahler di Mehta, a differenza di quello più viscerale e completamente “rivissuto” di Abbado, si coglie un senso di misura che deriva direttamente dalla scuola di Bruno Walter e che pare non sia stato contaminato né dalle letture dionisiache di Bernstein né dalla straziante commozione che pervade le interpretazioni del direttore milanese. La stessa scelta compiuta da Mehta di eseguire la prima versione della Prima induce a pensare che per lui il musicista austriaco sia innanzitutto un classico, nel senso del termine inteso dai direttori della generazione dei Walter e dei Klemperer, che soli si opposero nella prima metà del ’900 all’ostracismo generato dalle ben note intemperanze toscaniniane nei confronti di Mahler.
L’altra sera, nell’interpretazione di Mehta venivano smussate le componenti più radicali del messaggio mahleriano a favore di una visione più serena e ottimistica che non calcava troppo la mano verso il lato grottesco e “volgare” di certi passaggi della “marcia funebre”, elemento questo che peraltro si collegava benissimo con la prima parte del programma, almeno per quanto riguarda le altrettanto famose “volgarità” sottolineate da Hanslick nei confronti del Concerto op. 35 di Čaikovskij. Qui protagonista in tutti i sensi era la trentacinquenne violinista olandese Janine Jansen, strumentista di valore eccezionale, al suo debutto scaligero, che ha offerto una esecuzione smagliante, tesa, della pagina celeberrima, strappando al pubblico (finalmente!) un applauso al termine del primo movimento. È questo tra l’altro un tributo da sempre considerato normalissimo – anzi quasi obbligatorio – presso le platee americane e qui da noi scambiato erroneamente come segno di ignoranza da parte dello spettatore facilone che non conosce le regole del bon ton a teatro. E gli ignoranti che hanno zittito gli applausi avrebbero fatto meglio a tacere ed evitare di guardare nervosamente l’orologio durante la sinfonia di Mahler, che evidentemente oltrepassava il coefficiente di tolleranza medio di certo pubblico: bene il concerto serale, a patto che non guasti il timing del dopo-Scala. Coloro che hanno resistito alla lunga sequenza di applausi finali che, ripetiamo, ha coinvolto tutto il teatro e i componenti dell’orchestra, hanno potuto ascoltare la Sinfonia dalla Forza del destino, da sempre cavallo di battaglia di Mehta: «Non possiamo venire alla Scala dopo diciotto anni e non suonare Verdi» ha detto il Maestro, e Verdi è stato.
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