Opera • Rivalità tra famiglie, odi ancestrali ma anche donne offese nella propria femminilità e nei propri sentimenti nella regia, firmata da Mario Martone, della prima opera di Verdi
di Luca Chierici
P er gli spettatori che giungono in teatro il sipario è già aperto sull’interno di una villetta fintamente lussuosa, con colonne di marmo verde tessalico e capitelli dorati, specchi e scaloni pretenziosi e divani in raso rosso che vorrebbero rappresentare le ambizioni di ricchezza di un boss della camorra. La dimora sembra in realtà ricolma di quei finti arredi che si trovano in certi outlet specializzati della periferia milanese; la presenza di una piccola cappella votiva vicino all’ingresso conferisce all’assieme quel tocco di religiosità tradizionale che stride ancora di più con i presupposti criminali degli inquilini. Vi sono i componenti maschili della banda e soprattutto la donna del boss, promessa sposa, e il nugolo di amiche, le più giovani (compiacenti nei confronti dei coetanei maschili) affiancate da mamme e zie che rappresentano il focolare di ogni famiglia italiana che sia più o meno rispettabile.
Abiti moderni, dunque, e abbondanza di fucili, lupare, coltelli, ossia l’arsenale indispensabile del camorrista-mafioso e dei suoi sgherri. Leonora e Oberto arrivano (lei vistosamente incinta) da una periferia urbana che è fatta di condomini in lontananza, prati e orti, campi sovrastati da una gru che indica edifici in costruzione, forse lasciati lì perché bloccati da qualche storia di fallimento. Questo è il quadro principale delle scene firmate da Sergio Tramonti che bene illustrano l’idea registica di Mario Martone. Enrico conte di Salinguerra è il malvivente che si avvicina al potere sposando Cuniza, la sorella di Ezzelino da Romano, rappresentante di una “famiglia” più in vista della sua; Oberto e la figlia Leonora sono i reietti, coloro che sono stati esclusi dal “territorio” controllato dai rivali. E mentre Oberto chiede vendetta, Leonora chiederà giustizia per il proprio onore ferito di ex-amante di Enrico, e troverà alla fine complicità e solidarietà proprio nella rivale Cuniza, delusa al pari di lei dalla codardia del promesso sposo. La stessa Cuniza, che rimira dapprima il suo abito da sposa con civetteria paesana, all’inizio dell’atto II sfoglierà con le amiche e le parenti un album fotografico, unico ricordo tangibile e prezioso della sua storia con il boss.
Quella di Martone è la riprova di come una regia moderna possa rappresentare un valore aggiunto nella rappresentazione di un’opera lirica se l’idea che vi sta alla base svela più di una assonanza con i contorni di un libretto che descrive tutt’altra vicenda, ambientata in un lontano medioevo. Quella di Oberto è la storia, secondo Martone, di rivalità tra famiglie, di odi ancestrali, ma anche di donne offese nella propria femminilità e nei propri sentimenti, ossia una storia che si ripete da sempre ed è purtroppo sempre attuale. Certo, il fatto che l’opera del debutto verdiano sulle scene non sia ammantata di quel contorno di sacralità tipico di lavori molto più famosi dà agio al regista di muoversi con maggiore libertà, così come l’acerba partitura potrebbe anche lasciar spazio a maggiori gradi di libertà dal punto di vista interpretativo (se ne valesse la pena). Sta di fatto che il bravo concertatore e direttore Riccardo Frizza non ha approfittato più di tanto di queste possibilità e ha condotto l’opera in porto con gusto senza troppo calcare la mano né sui bellinismi e donizettismi né su una evidente tendenza da parte del compositore di insistere a volte troppo marcatamente sulla ripetizione di moduli assai simili tra loro
Non si vuole qui attribuire all’Oberto un valore di opera matura né di capolavoro giovanile che svela particolari atteggiamenti programmatici in rotta con la tradizione, ma non è neanche giusto liquidare con sufficienza una prova che ci rileva almeno un elemento di grande spicco. Si tratta del gioco dei riscontri, sempre interessante e talora commovente, relativo a temi, relazioni armoniche, dettagli di orchestrazione che ci fanno già intravedere momenti celebri del Verdi maturo (nella Sinfonia, il primo assolo del clarinetto, o il passaggio annunciato dal trillo al flauto nel Vivace come prima, anticipazione straordinaria di un analogo momento della Traviata) o certi passaggi del second’atto che preludono al Macbeth, ad esempio. La versione scelta da Frizza per questa rappresentazione scaligera include nell’atto secondo un duetto delle due protagoniste che era stato inserito da Verdi ma mai rappresentato finora e che travalica il suo significato originale proprio in vista della regia di Martone, che sottolinea il rapporto prima di sfida e poi di solidarietà e complicità tra Cuniza e Leonora.
Il cast di questo Oberto, un’opera che era stata ripresa alla Scala solo due volte (1951 e 2002) per un totale di 10 rappresentazioni contro le 31 del biennio 1839-1840, si è trovato a rispondere perfettamente alle idee del regista, che ha del resto dichiarato come il suo lavoro si sia perfezionato durante le prove proprio a contatto con questa compagnia di canto. Il Riccardo di Fabio Sartori è un boss perfetto nella sua stazza non indifferente ed è soprattutto un tenore dalla voce possente, dal fraseggio di tradizione, per nulla intimorito da una tracheite annunciata all’inizio da un solerte speaker del Teatro. Il suo protagonismo – ma è un dettaglio – disturbava forse nel quartetto dell’Atto II dove Sartori svettava troppo su un ensemble che si vorrebbe evidentemente molto più omogeneo.
Apprezzatissima sopra tutti era la Leonora di Maria Agresta: la sua cavatina e cabaletta d’ingresso hanno rivelato fin dall’inizio una bella voce brunita, fresca e omogenea in tutti i registri. Qualità che non si ravvisavano invece nella Cuniza della Ganassi, soprano di grandi qualità musicali ma non sempre impeccabile per quanto riguarda l’emissione, soprattutto nei centri e nel grave.
Al pari della Agresta è stata salutata dal pubblico la presenza di Michele Pertusi, nobile Oberto e artista di primissimo piano che lontano da inutili divismi si è costruito fin dagli anni ’80 una carriera magnifica, sorretta via via da esempi di sempre più alto livello.
Successo convinto per tutti tranne che per una parte del loggione, diviso (c’era da aspettarselo) sull’impianto registico e scenografico, come a sottolineare un pregiudizio infondato su tutto quanto appartiene alla categoria del nuovo e dello sperimentale.
© Riproduzione riservata
Il debutto di Riccardo Frizza è stato sottolineato da applausi convinti più del Macbeth della serata precedente. E’ un successo meritato per il maestro che nonostante la sua giovane età è già apprezzato e festeggiato in quasi tutto il mondo.
Da spettatore mi trovo d’accordo soprattutto sull’ultimo paragrafo e sono lieto che l’autore ne abbia scritto.