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Concerti • Il Teatro La Fenice ha ospitato in una serata memorabile l’orchestra tedesca, con il suo direttore musicale Christian Thielemann, per festeggiare il bicentenario del compositore
di Francesco Lora
R ichard Wagner ha compiuto 200 anni il 22 maggio scorso: Christian Thielemann, il più referenziato direttore wagneriano dei nostri giorni, e la Staatskapelle di Dresda, orchestra che lega la propria storia a quella del compositore, lo hanno commemorato con due favolosi concerti nella capitale sassone, il 18 e il 21 maggio, e hanno poi portato il secondo programma in tournée al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, al Musikverein di Vienna e al Teatro La Fenice di Venezia. A quest’ultima serata, con data del 30 maggio, si riferisce la nostra recensione dove tutto dovrebbe essere scritto al grado superlativo, e che rende onore massimo alla città lagunare ove Wagner morì.
Le virtù della Staatskapelle di Dresda, col suo mezzo millennio di attività, sono note a dispetto di un’esposizione massmediatica mai giunta al livello dei Berliner o dei Wiener Philharmoniker. Il recente arrivo di Thielemann come direttore musicale ha però stillato nuova linfa vitale nell’orchestra, da una parte guadagnandole l’insediamento al Festival di Pasqua di Salisburgo al posto dei Berliner, dall’altra ripristinando la sua antica identità culturale germanica che le precedenti direzioni di Bernard Haitink e Fabio Luisi avevano flesso in modo più esperantico e meno peculiare. Dopo un solo anno di lavoro insieme, ecco dunque da Thielemann e dalla Staatskapelle il solo connubio europeo che possa affiancarsi ai Wiener e quasi tener testa a loro: se questi ultimi paiono la Roma del sinfonismo, imperiale e barocca, colossale e indomita, i musicisti di Dresda paiono una parallela Atene, sapiente e classica, puntigliosa e democratica. Quale Wagner possa uscire dal dialogo tra Thielemann e la Staatskapelle è un’idea sovrumana, che ha preso a concretizzarsi nel recente Parsifal salisburghese, e che il concerto veneziano ha riconfermato agli orecchi increduli di un pubblico immobilizzato nell’ascolto, e poi prorompente in applausi degni delle divine lunghezze wagneriane.
Tutto è chiaro già nel brano d’apertura, l’Ouverture da Der fliegende Holländer, curiosamente eseguita non nell’originale versione di Dresda (1843) bensì in quella riveduta per Parigi (1860), culminante nel tema della redenzione: qui la Staatskapelle ha ricevuto da Thielemann sollecitazioni infinitesimali su ogni dettaglio della partitura, dal calcolato gonfiarsi e ricadere delle ondate di suono al canto affettuosissimo delle prime parti dei legni, fino all’aristocratica direzione che gli ottoni imprimono alle loro note tenute, puntando dritti al titanismo salvo poi chiudere la frase con un ricciolo compiaciutamente arguto. La massa di suono, immensa di per sé e senza traccia di sforzato, reca impresso il massimo incanto dell’orchestra di Dresda: quello di essere tuttavia sempre cristallina, penetrabile, con le singole parti tutte chiaramente individuabili, e coi singoli timbri giustapposti l’uno all’altro in perfetta armonia cromatica, senza dunque confondersi nell’unica colata magmatica che costituirebbe la norma (e figurarsi in Wagner!).
Gli stessi insuperabili esiti di lettura sono passati agli altri brani in programma: quel poema sinfonico di fatto che è Eine Faust-Ouvertüre in re minore, nella versione ampliata del 1855 e in un’interpretazione che scandagliava ogni sottigliezza evocativa della partitura; l’Ouverture del Rienzi, con quel finale che molto esita, e alla fine accetta di lanciarsi in un crescendo all’italiana (se è la Staatskapelle a far montare l’impianto musicale, immaginatevi quale sia la grazia dell’esposizione tematica all’avvio, e quale artiglieria sonora sfolgori poi al traguardo); il Preludio all’atto I del Lohengrin, dove le lamine acutissime dei violini di Dresda sono risuonate lievi come l’aria e arcane come cristalli vibranti; e l’Ouverture del Tannhäuser, già ascoltata nel concerto salisburghese del 28 marzo scorso, «dove gli archi incedono con nobile fierezza, su tempi più spediti del consueto, e dove legni e ottoni fanno rosseggiare l’impasto con caldi echeggi epici»: tanto vale autocitarsi, ché nella mera replica del suo magistero la Staatskapelle continua a sopravanzare la capacità descrittiva del recensore.
A fianco dei brani strumentali, altri ve ne erano di vocali: tre scene d’opera affidate alla voce del tenore Johan Botha. «Allmächt’ger Vater, blick herab!» dal Rienzi, «In fernem Land, unnahbar euren Schritten» dal Lohengrin – eseguito nella sua stesura originale, con un’ampia seconda sezione rimasta pressoché inedita – e «Inbrunst im Herzen, wie kein Büßer noch» dal Tannhäuser hanno palesato da una parte l’impareggiabile virtuosismo narrativo di Thielemann e la sua abilità nell’assecondare in ogni piega il primato del canto; dall’altra, hanno trovano in Botha un vocalista con smalto meno lucente di altre volte e con emissione inficiata da veli di raucedine: nondimeno, si tratta del tenore wagneriano col timbro e con la comunicativa forse più cordialmente all’italiana, esente da fraseggi calligrafici e capace di un’espressività franca, genuina, teatralmente persuasiva a ogni sillaba. Ben gli è spettato l’applauso di Thielemann stesso, sceso dal podio e unitosi al pubblico.
Nel programma tutto wagneriano, l’unica eccezione è stata concessa a un brano di Hans Werner Henze: sarebbe dovuto essere quell’Isoldes Tod commissionato dal Festival di Pasqua di Salisburgo e dalla Staatskapelle, con chiaro riferimento al finale di Tristan und Isolde; scomparso il compositore prima che il brano fosse approntato, a Venezia come a Salisburgo è stato eseguito un suo pezzo del 1999, Fraternité, pervaso dal medesimo senso di inquieta serenità che Isotta canta nel suo mortale ricongiungersi a Tristano. Wagneriano tornava a essere l’unico bis concesso, il Preludio all’atto III di Lohengrin, rutilante di colori in partitura e cento volte più rutilante nell’interpretazione della Staatskapelle: nella sala della Fenice, fatta traboccante di quel suono dorato, la pompa stessa di affreschi e stucchi è parsa scuotersi a un riverbero tanto inebriante.
© Riproduzione riservata
Complimenti a F. Lora per la sua splendida recensione, che mi ha fatto rivivere le emozioni profondissime suscitate dal meraviglioso concerto veneziano, cui pure io ho assistito. Di Lora ho apprezzato pure l’acuta analisi del Parsifal salisburghese (straordinario per l’udito, non certo per la vista…).
Quanto al Maestro Thielemann, sublime concertatore, io penso che egli sia già da annoverarsi tra i più grandi direttori di ogni tempo.
M.M.