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Opera • Regia di Stefano Mazzonis, direzione di Claudio Scimone, bravi cantanti-attori belgi per il lavoro di un compositore vissuto tra Sette e Ottocento, prolifico in campo teatrale quanto poco frequentato ai nostri giorni
di Attilio Piovano
A ndré-Ernest-Modeste Grétry, come il Carneade di manzoniana memoria: chi era costui? Tra i lettori appassionati e colti di certo più d’uno saprà che si tratta di compositore belga (1741-1813), segnatamente operista, ancorché avesse studiato violino e clavicembalo e praticato vari generi. In Italia si formò a Roma grazie ad una borsa di studio ed ebbe contatti con Piccinni e col mitico padre Martini; operò dapprima a Ginevra (dove trionfò con Le Huron) e poi a Parigi dove si conquistò fama di buon compositore teatrale. Detto ciò, occorre riconoscerlo apertis verbis, non si tratta certo di nome ricorrente nei cartelloni teatrali e molti (diciamolo con franchezza), al di fuori dei patri confini, ne ignorano bellamente l’esistenza. Vissuto in un epoca di grandi e calamitosi travagli storico-politici, cadde in disgrazia con la Rivoluzione francese, salvo risorgere in epoca napoleonica prima di concludere i suoi giorni presso l’Ermitage di Montmorency, già residenza del sommo Rousseau che l’ebbe in grande considerazione. Una sua bella statua campeggia dal 1842 a Liegi, sua città natale, esattamente dinanzi all’Opéra Royal de Wallonie – non solo, il monumento racchiude addirittura il suo cuore (analogamente a Chopin, che riposa a Parigi, ma il cui cuore è in una teca a Varsavia) – ed è proprio tale teatro, in coproduzione col Palazzetto Bru Zane di Venezia, Centre de la musique romantique française, ad averne sagacemente festeggiato il bicentenario della morte mettendo in scena, in chiusura di stagione, il raro Guillaume Tell: lo stesso titolo poi portato ai massimi splendori dal genio di Rossini. E, inevitabilmente, accadde esattamente quanto sì verificò col Barbiere di Paisiello, messo in ombra dalla versione del pesarese. Compositore brillante, invero fin troppo prolifico (oltre 60 i suoi titoli teatrali), Grétry lasciò un segno nell’ambito dell’opéra-comique, specie coi capolavori riconosciuti, Zémire et Azor (1771) e – più ancora – Richard Coeur-de-lion (1784).
Quanto al Guillaume Tell su libretto di Michel-Jean Sedaine dall’omonima tragedia di Antoine-Marin Lemierre, andò in scena all’Opéra-Comique di Parigi il 9 aprile 1791 riscuotendo un successo a dir poco straordinario (ben 82 le repliche): l’opera – poi ancora ripresa felicemente negli anni 1827-29, in pratica a ridosso del capolavoro rossiniano – rivela una spontanea e popolare vena melodica, pur in assenza di memorabili temi: mescolando epopea nazionalistica, spirito libertario-rivoluzionario e vicende amorose, con tanto di tempesta sul lago e finale elogio della libertà che trionfa sulla tirannia. Vena spontanea sì, e financo qualche non spregevole preziosismo armonico-timbrico, un apprezzabile fiuto drammaturgico, ma nulla più. Del resto, occorre riconoscerlo, Grétry fu musicista di buon mestiere, non certo geniale. Merito di Stefano Mazzonis di Pralafera, direttore artistico e generale dell’Opéra Royal de Wallonie, aver proposto nel mese di giugno 2013 tale titolo, curandone altresì la regia e affidando la direzione musicale all’esperto Claudio Scimone che, richiamando l’attenzione su tale partitura, ne aveva in un certo senso propiziato l’inserzione in cartellone.
Molto opportunamente Mazzonis, avvalendosi delle scene naïves e pur funzionali di Jean-Guy Lecat e degli sgargianti e popolareschi costumi di Fernand Ruiz, trovandosi in presenza di una partitura dai corposi recitati e potendo contare su un cast per intero belga di validi cantanti dalle spiccate doti attoriali, ha puntato su una regia iperrealistica, efficace e divertente: volta a collocare con gags ed una significativa gestualità i personaggi entro una Svizzera idilliaca e idealizzata, con tanto di oleografica mucca in primo piano, perfino un cavallo vero e un delizioso cane pastore (il mansueto Doomey, per la precisione, Berger Blanc Suisse, bravo attore anch’esso); e poi la tempesta sul lago resa con semplici macchine teatrali movimentate a vista, e ancora la presenza di marionette e l’incendio della Rocca con bagliori rosseggianti. Bella l’idea di riprodurre un teatro di ascendenza tardo barocca con tanto di tiri a vista e movimentazione delle scene da parte di macchinisti vestiti da marinai (non paia una bizzarria: all’epoca, infatti, così ci spiegava lo stesso regista, i marinai erano pressoché gli unici che sapessero maneggiare con sicurezza le funi e realizzare nodi, sicché spesso i macchinisti erano proprio ex marinai ovvero marinai ancora in attività momentaneamente prestati a tale attività). Una regia che, pur senza cadute di gusto, ha opportunamente amplificato il lato farsesco e per così dire nazional-popolare, a scapito degli aspetti tragici insiti nella vicenda (l’accecamento di Melktal, la condanna di Guillaume Tell, e via elencando) che se enfatizzati avrebbero rischiato di rendere greve il tutto.
Apprezzata la performance attoriale quanto a resa dei protratti (e spesso estenuanti recitati) da parte del cast, con l’ottimo Marc Laho, un aitante e bonaccione Guillaume Tell e la versatile e colta Anne-Catherine Gillet che ha disimpegnato con autorevole scioltezza il ruolo di Madame Tell, ammirata nell’unica vera e propria aria che le compete. Da citare poi ancora Lionel Lhote (Gessler), Liesbeth Devos (Marie), i due Melktal padre e figlio (Patrick Delcour e Stefan Cifolelli) nonché Roger Joakim nel ruolo del viaggiatore e Natacha Kowalski (il figlioletto di Guillaume Tell cui spetta tenere sul capo la proverbiale mela), tutti allineati su un buon standard. E proprio la mela ha tenuto col fiato sospeso il pubblico; valida la scelta di accorpare i tre atti collocando un solo intervallo a metà del secondo, esattamente nel momento della prova. Alla parziale delusione, per così dire, da parte del pubblico (nel momento in cui l’eroe svizzero punta l’arco si resta col fiato sospeso e invece il sipario si chiude) è corrisposta infatti la sorpresa di ritrovare tutti – come in una sorta di fermo immagine – esattamente nella stessa posizione. Le luci si fanno notturne e, come in un sogno, la freccia assumendo una colorazione blu fosforescente, inizia a spiccarsi lentissimamente colpendo il bersaglio. Subito luci abbacinanti e coro trionfale. Al coro, cui compete un ruolo non indifferente nell’opera, un plauso speciale (ben istruito da Marcel Seminara).
L’orchestra ha dato una buona prova, sotto la direzione di Scimone che ha intenzionalmente optato per una lettura soft, ancorché non monocroma, tenendo ragionevolmente il substrato armonico un poco sottotono a favore delle voci e, più ancora, della recitazione che hanno catturato quasi per intero la nostra attenzione, ma evidenziando con garbo e forse fin troppa parsimonia – dove occorreva – quei guizzi armonici che già paiono (moderatamente invero, molto moderatamente) gettare un ponte verso l’ormai incipiente Romanticismo, a partire dalla perturbata Ouverture anticipatrice di toni beethoveniani, affrontata con compassato aplomb. Da rilevare il tocco di colore locale grazie alla presenza in organico del cornet de vache e così pure qualche passaggio poi ripreso (con palmare evidenza, senza che per questo si possa parlare di plagio) da Rossini.
Un’ultima annotazione riguarda la presenza tra i figuranti di alcuni portatori di disabilità: una bella tradizione ormai da tempo consolidata all’Opéra di Liegi. Vederli lavorare in scena con grande scrupolo e professionalità e più ancora scorgere nei loro occhi il brillio a termine spettacolo, incontrandoli tra i camerini e i corridoi, attorniati dall’abbraccio affettuoso dei loro colleghi, è stata una vera e propria lezione per noi tutti: chapeau.
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