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Opera • A 250 anni dalla nascita del compositore bavarese, il Teatro Donizetti ha presentato in forma di concerto il titolo di raro ascolto. Trionfatrice dell’esecuzione Anna Bonitatibus
di Ilaria Badino
D urante questo 2013 di doverose quanto – spesso – pleonastiche celebrazioni verdian-wagneriane (come se già naturalmente i cartelloni operistici di tutto il mondo non dessero abbondante visibilità ai due titani ogni santa stagione), gli altri compositori cui pure sarebbe stato giusto rendere omaggio sono scivolati in secondo piano. Britten su tutti ma, perché no, anche Giovanni Simone Mayr, non solo maestro di quello straordinario genio innovatore musical-drammatico che fu Donizetti, ma anche musicista che una paginetta negli annali la meriterebbe tutta per sé senza venir meramente liquidato come mentore o come esponente di un decennio – il primo dell’Ottocento – semplicisticamente etichettato come di stallo creativo prerossiniano, secondo un’ottica progressiva e non estetica delle arti che lascia il tempo che trova.
Onore al merito, dunque, al Bergamo Musica Festival, che quest’anno ha deciso di aprire i battenti nella tarda primavera anziché, come di consueto, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, per cogliere al volo la ghiotta occasione d’una coproduzione in forma di concerto di Ginevra di Scozia con la Bayerischer Rundfunk e la Mayr Geschellschaft di Ingolstad, cittadina bavarese nei pressi della quale vide la luce il compositore, dove l’opera è stata eseguita in forma di concerto un paio di giorni prima rispetto alla serata inaugurale bergamasca. L’operato del direttore artistico Francesco Bellotto in questi anni di gestione è davvero degno di lode: puntando su un equilibrato mix di opere desuete donizettiane e di titoli del grande repertorio, soprattutto nei confronti delle prime è riuscito a creare un’aura d’interesse tale da coinvolgere una notevole quantità di pubblico, curioso, perlopiù competente ed in altissima percentuale proveniente dall’estero. Un risultato non da tutti, in questi tempi grigio topo durante i quali anche la gloriosissima Scala fatica a fare il tutto esaurito pur chiamando presso di sé nomi da capogiro ed essendo l’unico teatro italiano a poter fare leva, per quanto riguarda i propri introiti da sbigliettamento, su un consistente afflusso turistico non strettamente musicale. Intendiamoci, non è che domenica 16 giugno l’ampia sala del Donizetti straripasse di spettatori; tuttavia, essi sono giunti comunque numerosi e forti di uno spirito partecipe (un vicino di posto è stato addirittura colto in flagrante mentre canticchiava un brano dell’opera! Tutto nella norma se si fosse trattato di Lucia di Lammermoor, ma dato che si stava eseguendo un titolo misconosciuto di un compositore trascurato, la cosa è stata fonte di piacevole sbigottimento).
I motivi d’interesse per assistere a questa Ginevra di Scozia, in effetti, non mancavano: oltre alla rarità della proposta artistica, annoveriamo il fatto che essa s’è attestata come la prima esecuzione assoluta della nuova edizione critica in seguito al recente ritrovamento dell’autografo, avvalendosi di compagini internazionali con almeno una punta d’assoluta eccellenza a livello di cast vocale. Non va poi dimenticato che Mayr, nella pur globale scarsa teatralità della sua composizione, anticipa qui forme aperte ibride e ad ampia campata, che almeno a livello sperimentale suggerirebbero complesse soluzioni drammatiche, benché non sempre felicemente portate a buon fine. Si prende atto, inoltre, dell’introduzione, nell’opera italiana, di uno strumento eminentemente romantico quale il corno inglese; di un afflato ossianico esplicantesi nella brumosa ambientazione scozzese e nella delineazione di alcuni personaggi, Ariodante in primis; di un protagonista maschile tratteggiato come eroe cortese e disinteressato, dotato di quello slancio sacrificale quasi femminile che l’ambiguità vocale sostiene ed amplifica, prefiguratore del Tancredi rossiniano che, dodici anni dopo, sempre e non a caso complice un libretto di Gaetano Rossi, darà a questo prototipo la sua fisionomia più nobile e perfetta. A proposito di eroismo addolcito da delicata purezza, ci piace citare lo scrittore, saggista e giornalista statunitense David Foster Wallace, che conclude il saggio tennistico «Federer come esperienza religiosa» con le seguenti parole: «Anche soltanto vedere (…) la potenza e l’aggressività rese vulnerabili dalla bellezza significa sentirsi ispirati e (in modo fugace, mortale), riconciliati». Ci pare che la triade di eleganti guerrieri Ariodante-Tancredi-Federer sia tutt’altro che peregrina, sebbene di sicuro alquanto variegata.
Ma tornando strettamente al merito musicale della produzione, si pone naturale il confronto con l’incisione Opera Rara del 2001, unica testimonianza discografica in commercio del dramma eroico musicato da Mayr. In quell’occasione, il ruolo della protagonista eponima era sostenuto dal flautato soprano di coloratura Elizabeth Vidal, il cui registro sovracuto era mirabolante per facilità, precisione e pirotecnia quale dovette essere quello della creatrice Teresa Bertinotti-Radicati, se per lei il compositore bavarese scrisse una parte spesso gravitante ad altitudini elevatissime, di cui i Mi6 esplicitamente richiesti sono vette estreme necessarie e non puri sfizi melismatici. Nella performance bergamasca, Ginevra è stata interpretata da Myrtò Papatanasiu, ascoltata in più d’un occasione nel repertorio belcantistico che, per predisposizione naturale e limiti tecnici, non ci è mai parso essere il suo d’elezione: tantomeno questa volta. La cantante greca appare in difficoltà già nei Do6 ed è costretta a far precipitare una linea vocale esplicitamente pensata per bucare l’empireo verso lidi più sicuri (e, soprattutto, meno acuti), provocando così una reiterata ed invero frustrante sensazione d’incompletezza; inoltre, le agilità sono spesso risultate poco a fuoco. Peccato, perché il materiale vocale sarebbe interessante se piegato a scritture più smaccatamente liriche, liquide e galleggianti e non continuamente forzato ad una tipologia canora alla quale, con tutta evidenza, non s’attaglia.
Ottimo Peter Schöne nei panni del Re di Scozia: bel timbro brunito, modo di porgere levigato ed imponente al contempo, presenza maestosa sebbene si trattasse di un’esecuzione non scenica. Senza infamia e senza lode la prova della giovane Magdalena Hinterdobler quale Dalinda, personaggio ad onore del vero piuttosto ingrato, damigella lobotomizzata d’insopportabile stoltezza. Deboluccio ed ancora in evidente imbarazzo nell’esibirsi pubblicamente in contesti importanti Marko Cilic nei panni (figurati) di Vafrino, mentre molto brava è stata Stefanie Irányi alle prese con l’altra parte, oltre a quella di Ariodante, creata alla prima assoluta da un castrato, ossia quella di Lurcanio: il mezzosoprano tedesco è una di quelle interpreti che spendono tutte loro stesse nell’intensità e nella varietà del fraseggio al fine di dare vita ad una degna caratterizzazione. Mario Zeffiri ormai da tempo calca i principali palcoscenici internazionali, ultimamente avendo addirittura spalancato le porte del suo tradizionale repertorio da lirico-leggero fino alla Messa di Requiem verdiana, nella quale spesso s’esibisce sotto l’egida di Riccardo Muti. Lo stile, raffinato ed elegante, con cui permea il suo Polinesso sarebbe ineccepibile se non recasse il sentore fané di tenore di grazia anni ’50, con corredo di decadente estenuazione e di una gamma acuta che perde troppo presto di vigore.
Assoluta trionfatrice della serata è stata Anna Bonitatibus, al debutto nella temibile parte di Ariodante cucita appositamente sulle straordinarie capacità tecnico-espressive del bel castrato lombardo Luigi Marchesi, all’epoca già quarantasettenne ma evidentemente ancora nel pieno delle forze ed all’apice del successo. Tale constatazione deriva dal fatto che il “cavaliere italiano”, nobile d’animo quanto di sangue, canta molto, in modo vario ed in formule più sperimentali rispetto a quelle riservate agli altri protagonisti: basti pensare alla Grande Scena dei Solitari, dove il recitativo accompagnato s’ammanta d’un più intenso significato drammatico all’interno di un’allure d’elegia protoromantica davvero precorritrice dei tempi. Il baricentro vocale è stabilmente collocato nei profondi abissi del registro grave; va da sé che la ricerca coloristica diventa impresa assai ardua. La Bonitatibus è artista eccelsa e, benché non sia un contralto, con sommo magistero tecnico riesce comunque a impadronirsi del ruolo in virtù di una tenacia difficilmente eguagliabile; risolve con profonda compartecipazione i brani di ampio respiro e con sgargiante fervore i passaggi d’agilità, avvolgendo il suo Ariodante di quelle vesti da cortese condottiero tardo gotico come solo Pisanello, Gentile da Fabriano e Benozzo Gozzoli seppero fare in pittura.
La Münchner Rundfunkorchester e il Männerchor des Heinrich-Schütz Ensembles Vornbach non sbagliano un colpo, offrendo una prova di precisione teutonica. Ineffabile in quanto a rigore è pure George Petrou, occupato a svolgere il duplice ruolo di direttore e di cembalista, ma forse proprio a causa di questo eccessivo scrupolo nella cura dell’esattezza metronimica non indulge nel concedere ai cantanti una libertà espressiva che si sarebbe potuta manifestare attraverso la ricerca di colori e di rubati e che non avrebbe potuto che apportare beneficio all’intera esecuzione.
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