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Opera • Christophe Rousset e Les Talens Lyriques aggiungono un nuovo titolo di Lully al loro repertorio e ne danno una lettura di riferimento: in forma di concerto nell’antica residenza dei re di Francia, quindi a Beaune e nell’incisione discografica
di Francesco Lora
R appresentata per la prima volta a Parigi nel 1684 e ripresa l’anno successivo a Versailles, Amadis è la terz’ultima tragédie en musique di Jean-Baptiste Lully, e prefigura i due capolavori estremi, Roland e Armide. Com’è canonico, vi sono un prologo e cinque atti su libretto di Philippe Quinault, recitativi ed airs nei quali parola e musica raggiungono l’inscindibilità, divertissements assortiti di assoli, cori e danze, nonché l’onnipresente celebrazione del re di Francia, le virtù eroiche del quale sono ritratte nell’Amadigi di Gaula di cavalleresca memoria. Una nuova ripresa del capolavoro lulliano è sempre benvenuta, e diviene agognata se a promuoverla sono istituzioni e persone di alta competenza e motivazione. Da una parte vi sono Château de Versailles Spectacles e il Festival di Beaune, ossia due dei più insigni centri di valorizzazione della musica del Sei-Settecento: un’esecuzione in forma di concerto di Amadis ha avuto luogo il 5 luglio nell’Opéra Royal della Reggia di Versailles, mentre una replica avrà luogo il 13 nella corte dell’Hôtel-Dieu di Beaune. Dall’altra parte vi è in particolare, attorniato da colleghi di fiducia, un musicista della levatura di Christophe Rousset: direttore e clavicembalista curioso e versatile quanto pochi altri, tra i “filologi” francesi è egli quello più esperto del repertorio italiano, e nel contempo è egli quello che più ha contribuito alla causa del Lully teatrale. Nel corso degli anni abbiamo ascoltato il suo Cadmus et Hermione, il suo Bellérophon, il suo Persée, il suo Phaëton e il suo Roland; riferiamo ora del suo Amadis, che tra Versailles e Beaune è anche in corso d’incisione discografica e rimarrà dunque all’ascolto di ciascuno; e al termine del discorso non potremo sospirare a maggior ragione una sua Armide, ove sia rimesso a fuoco il massimo esito operistico di Lully.
Colpisce innanzitutto e sempre, nel Lully di Rousset, l’estenuazione di un’eleganza incantatoria, dove tutto è vaporoso, edenico, armonioso nei timbri fino a sfumare la coppia di trombe naturali entro la sezione degli archi. Non è una lettura impostata sui contrasti, bensì sulle giustapposizioni tenui, dove ogni fraseggio è inarcato da un gesto dotto, con una precisa direzione estetica e verso un preciso fine espressivo, o narrativo, o descrittivo-ambientale: l’Amadis che, nell’atto II, si aggira nella foresta in preda allo sconforto intona dunque un «Bois épais, redouble ton ombre» tra suoni di impatto quasi impressionistico, che irradiano e riverberano, o si fanno folto fogliame; e per dar voce ai tuoni e ai lampi invocati nel prologo basta non più che l’infervorata strumentazione di Lully, con interventi minimi di una macchina del vento a soffio. Ciò si ascolta dalle file dei Talens Lyriques, gruppo strumentale che con Rousset ostenta da vent’anni sonorità di cristallo, ignote – con loro pace – anche ai Christie, ai Minkowski, ai Niquet. E lo si ascolta parimenti dal Chœur de Namur, gruppo vocale che fornisce inoltre alla compagnia di canto le parti comprimarie, rivelando di solista in solista qualità eclatanti in fatto di forbitezza stilistica, consapevolezza tecnica e pregnanza espressiva.
Il marchio di Rousset trapela anche in ciò che riguarda la compagnia di canto, non solo nella scelta vincente dei solisti in sé, ma anche nell’uniformità e nella profondità della loro preparazione: si ammira cioè la chiarezza di pronuncia e la fragranza dell’accento in ciascun contesto melodico o teatrale; si ammira l’ornamentazione minutamente messa a punto in un repertorio che, come quello francese, ha una dottrina enciclopedica e inesorabile caso per caso (il cantante non ha dunque alcuna libertà, bensì deve conoscere e praticare un codice assai complesso, con la mediazione di un istruttore esperto); e si ammira, infine, ciascuna replica melodica, presentata con variazioni di gusto sopraffino, in equilibrio tra fantasia e misura. Pur in assenza di qualsivoglia movimento scenico, con queste rigorose premesse il testo musicale splende al colmo, e fa a sua volta brillare ogni aspetto teatrale: mai, in questa esecuzione in forma di concerto, vien da rimpiangere la mancanza di regia, scene e costumi, ché tutto sembra farsi immagine e movimento nella musica di Lully e nel porgere dei musicisti.
Nel libretto di Quinault, i personaggi e i rispettivi interpreti agiscono perlopiù a coppie. Nel prologo si incontra quella dei maghi benefici: Urgande è il soprano Bénédicte Tauran, che con fascino timbrico, rotondità d’emissione e pacata autorevolezza di toni sopraffà il timido Alquif del baritono Pierrick Boisseau. Nell’opera si incontrano tre altre coppie. La prima è quella amorosa protagonista: benché a tratti fibroso nella diabolica tessitura da haute-contre (il tenore acutissimo della tradizione francese), Cyril Auvity consegna un Amadis di timbro personale e di accento soave, e con esso riscatta precedenti infelici escursioni nel repertorio italiano (per esempio la Partenope di Handel a Ferrara e Modena, carnevale 2009); al suo fianco, Judith van Wanroij, con la sua voce trasparente e acidula, si cala a pennello nei panni virginali, frigidi, piccati e dolenti della principessa Oriane, alimentando tuttavia il pregiudizio circa il suo imminente debutto nelle Danaïdes di Salieri (dove il personaggio di Hypermestre ha ben altra tempra e scrittura musicale).
La seconda coppia è quella amorosa secondaria: e anche in questo caso la morbida, cangiante, calda affettuosità nella Corisande del soprano Hasnaa Bennani ha la meglio sulla più sbrigativa virilità nel Florestan del baritono Benoît Arnould. La terza coppia, infine, è quella dei maghi malefici, ed è qui che scocca il maggior temperamento: il soprano Ingrid Perruche come Arcabonne è infatti elettrizzante nel conciliare il grande sfogo a nervi tesi e il cesello della minuteria melodica; a testa alta la segue l’Arcalaüs di Edwin Crossley-Mercer, baritono di doti rimarchevoli per risonanza e sontuoso esotismo timbrico. Come anticipato, l’apporto dei cantanti comprimarii è di pari qualità, in primis quello dei soprani Caroline Weynants e Virginie Thomas, provenienti dal Chœur de Namur e impegnati nei divertissements. Accanto a loro, il giovanissimo haute-contre Reinoud van Mechelen fa addirittura balzare sulla sedia per giovanile cordialità di timbro e per sfacciata duttilità di modulazione.
Un ascolto attento e rapito, scioltosi poi in infiniti applausi, non solo ha premiato il lavoro di Rousset e dei suoi, ma ha anche confermato gli esiti di trent’anni di campagna culturale, promossa dalla Repubblica francese per la rivalutazione del patrimonio musicale nazionale presso il proprio pubblico: mentre nei teatri italiani vanno in scena opere di Verdi o Puccini di fronte a sale semivuote, in quelli francesi si scazzotta per assistere a un’opera di Lully o Rameau (oltre che, si intende, di Verdi o Puccini). Da ciò procede anche un differente dialogo, complice e reciprocamente grato, tra musicisti e ascoltatori: prima di congedarsi dal pubblico, cantanti e strumentisti bissano senza fiatare l’intero quarto d’ora della chaconne finale. Dono impensato, interminabile, sublime.
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