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Alesandro Corbelli (Bartolo) e Lawrence Brownlee (Il Conte d’Almaviva) | Foto Corrado Lannino/Studio Camera
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Opera • Al Teatro Massimo è andata in scena l’opera di Rossini con la regia di Francesco Micheli e la direzione musicale di Stefano Montanari
di Santi Calabrò
[IL] BARBIERE DI SIVIGLIA È UN’OPERA “ESTREMA”: quanto alla fonte, il canovaccio vetusto del senex e della puella è spinto ben oltre i suoi confini ideologici dalla visione borghese di Beaumarchais; quanto alla musica di Rossini, un’inventiva torrenziale e un linguaggio che porta la reiterazione al parossismo assicurano tempi teatrali meravigliosamente adeguati al comico, innestano quella marcia in più che permette ai contenuti di trascendere il loro senso letterale, e rispecchiano un’epoca che cambia, rivolta e finanche stritola i suoi paradigmi e i suoi valori. Non a caso Il barbiere, prima opera italiana a diventare “di repertorio”, marca questo primato proprio nel 1816: la storia dell’Europa ha da poco inaugurato un cambio di passo e persino la Rivoluzione francese, “annunciata” a suo modo da Beaumarchais, fa già parte del passato. Sotto diversi aspetti la regia di Francesco Micheli, ripresa da Alberto Cavallotti nella stagione del Teatro Massimo di Palermo, prende opportunamente le distanze da messinscene tradizionali che non colgono la “modernità” del Barbiere.
Il ruolo scenico affidato qui ai figuranti e al coro è quello di distillare lo specifico dell’azione, scommettendo sul fatto che è proprio l’intreccio, più che i sentimenti dei personaggi, la sostanza di questa drammaturgia. Così la comica parata di cameriere/travestiti sottolinea un ruolo pervasivo del mascheramento, alludendo al valore di metafora universale dei travestimenti del Conte d’Almaviva; gli operai della finta orchestra che accompagna la serenata d’amore in apertura portano in scena il lavoro in serie, simbolo dell’alienazione e dell’interesse economico che allungano i loro tentacoli sui territori del sentimento, complicandolo; mentre gli elmetti da cantiere distribuiti a tutti i protagonisti nel Finale I – quando la loro testa “scoppia” – sopportano la violenza dei colpi che il ritmo del meccanismo esistenziale assesta ai suoi stessi umani, troppo umani, artefici. Tante buone intenzioni, su una scena elegante e funzionale (di Angelo Canu), con stilizzati elementi mobili che accompagnano le varie situazioni, non impediscono che a volte il risultato si annacqui nella piacevolezza e nel nitore scenico fini a sé stessi: l’utilizzo di quelle stesse masse per mossette a tempo di musica poco aggiunge al senso dell’opera, quando non lo svia.
La parte musicale asseconda le migliori intuizioni della regia sotto l’aspetto dell’impulso che la direzione vivace di Stefano Montanari riesce a imprimere, ma la nettezza puntigliosa di tanti dettagli, che perseguono una rilettura rigorosa con ambizioni di autenticità rispetto alle “prassi esecutive”, non si ingloba sempre in una convincente visione di insieme. Anche il ripristino dell’aria tenorile per solito espunta dal Finale dell’opera lascia perplessi. Quell’aria va contro l’essenza della drammaturgia del Barbiere: è un retaggio barocco di un teatro di “affetti” statici contraddetto dal resto dell’opera. Fra i cantanti, nessuno ha le doti per domare in souplesse le colorature rossiniane, perciò i “numeri” leggendari del Barbiere passano senza incidere. Si salva La calunnia di Basilio, il bravo Adrian Sâmpetrean, mentre degli altri il più a posto vocalmente è Lawrence Brownlee, il Conte, malgrado la voce piccola. Alessandro Corbelli (Bartolo), Silvia Tro Santafé (Rosina) e Dalibor Jenis (Figaro) giocano di mestiere e in difesa nei punti impervi, ed esibiscono una buona conduzione nel resto dell’opera. Discreto successo.
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