
Concerti • L’atteso appuntamento dell’Orchestra ha patito l’assenza di Abbado, ma la compagine ha rivelato un volto inedito attraverso la bacchetta di Haitink. Una certa estraneità poetica è intercorsa tra il podio e il leggendario Pollini
di Francesco Lora
PER L’ORCHESTRA MOZART SONO TEMPI INCLEMENTI: tutta la stagione concertistica autunnale nel Teatro Manzoni di Bologna è stata cancellata per gli alti costi della macchina produttiva; non bastasse, l’unico concerto rimasto in cartellone – 2 dicembre: serata fuori abbonamento e con prezzi da capogiro; repliche al Musikverein di Vienna il 4 e 5 dicembre – ha patito il forfait di Claudio Abbado, indisposto. Proprio dalla soluzione a questo forfait è tuttavia venuta una bella notizia inaspettata, ossia il passaggio della bacchetta a un altro direttore di prima sfera anziché a un delfino dal presente nebuloso: ciò non accadeva dal 2005, quando per Bologna passò John Eliot Gardiner; e nemmeno i passaggi di Trevor Pinnock, Ivor Bolton e Gérard Korsten – professionisti di rango, non mostri sacri – avevano fino a oggi controbilanciato l’assenza di un Daniel Barenboim, di uno Zubin Mehta o di un Simon Rattle (per limitarsi ad alcuni nomi ben accetti nell’entourage abbadiano).
Il sostituto d’oro, Bernard Haitink, conosceva già la Mozart, avendola diretta nei mesi scorsi ad Amsterdam, Bruxelles e Londra, ed essendo subentrato ad Abbado anche in queste occasioni. A Bologna, egli ha dedicato l’intero programma a Beethoven, mantenendo il Concerto per pianoforte e orchestra n. 5 (“Imperatore”) e affiancando a esso la Sinfonia n. 6 (“Pastorale”) in luogo della Sinfonia n. 3 di Schumann (“Renana”). Si è ascoltata una Mozart diversa dal solito, convertita cioè a un suono pieno e denso anziché lieve e radioso, a fraseggi spalmati anziché filigranati, e a una lettura poderosa e titanica anziché nervosa e contrastata. Manco a dirlo, il punto culminante della serata era atteso, ed è stato puntualmente realizzato, nei rombi di tuono del quarto movimento della sinfonia; non nei primi due, col canto degli uccelli o coll’idillio del ruscello, né nell’ultimo, dove il ritorno del sereno dopo il temporale si è ammantato di una solennità epica che trascende le suggestioni della natura e forse la volontà stessa dell’autore (il quale, per dirne una, nella “Pastorale” non è il Rossini del finale del Guillaume Tell, con l’estasi di fronte alla riconquistata libertà).
Prima che nella sinfonia, e sempre nel segno del grandioso di vecchia e nobile tradizione, l’intesa tra podio e orchestra era già stata eccellente nell’Imperatore. Al contrario, in esso si è avvertita l’incommensurabilità tra il pianista e il direttore, leggendario l’uno e carismatico l’altro, ma reciprocamente estranei ai rispettivi orizzonti poetici. Maurizio Pollini, d’altra parte, ha suonato molte volte con Abbado il capolavoro beethoveniano, fino a maturare una lettura condivisa e di astrale riferimento. Se a dirigere è invece Haitink, la tecnica sublime del pianista, gravata dall’anagrafe impietosa, incontra qualche affanno sulle giuste note, sulla granitura dei trilli, sulla linda articolazione delle scale; rimangono fraseggi e spessori proposti con l’abituale magistero, calcolo e chiarezza, ma non ben assimilati dal podio, né mediati presso un’orchestra troppo fastosa e turgida per prestarsi a un dialogo fatto di gesti minuti. Al congedo del virtuoso, nessuna concessione di fronte alla supplichevole richiesta di un bis.
© Riproduzione riservata