In scena al Theater an der Wien l’oratorio incompiuto di Schubert con la regia di Claus Guth
di Barbara Babic
Lazarus oder die Feier der Auferstehung D689 (scritto nel 1820), oratorio-dramma religioso su testo di August Hermann Niemeyer, è un’opera che conserva in sé il fascino, per così dire immortale, dei lavori incompiuti. Sotto diversi punti di vista essa sembra quasi ruotare proprio intorno ai temi della morte e della fine, ponendo all’ascoltatore una serie di questioni di varia natura: come si affronta la malattia e cosa c’è dopo la morte? Come si può completare un frammento musicale – che in questo caso si interrompe in un momento cruciale del dramma?
Il regista Claus Guth, che da tempo è affine alle trasposizioni di oratori in forma scenica (si veda il suo Messiah di Händel), intende queste domande non come problemi ma come possibilità. Decide non a caso di ambientare la trama in un aeroporto, un non-luogo di transizione: a destra gli sportelli per l’imbarco, a sinistra una luce divina che di tanto in tanto attira i personaggi, in centro una grande scalinata – elemento tipico delle sue regie – a dividere il mondo terreno dall’aldilà. In questo spazio si muovono i passanti, ignari del dramma della malattia terminale di Lazarus (Kurt Streit) e del dolore delle sorelle Martha (Stephanie Houtzeel) e Maria (Annette Dasch) che si passano un biglietto per una destinazione (forse) senza ritorno. Una certa lentezza drammaturgica e musicale della prima parte – qui si nota Schubert abilissimo nel Wort-Ton ma meno nel Drama – è risolta da Guth attraverso la creazione di momenti di immobilità e movimento, strutturando dei tableaux di notevole effetto che sembrano quasi evocare la plasticità dei personaggi dei quadri di Hopper. Ci si trova davanti a una regia fatta di piccoli gesti (i petali rossi del dolore, i petali bianchi sulla salma), di sottili simbologie spesso piuttosto oscure e di giochi di sosia (come non pensare al Doppelgänger schubertiano?). La musica di Schubert si interrompe durante la disperazione di Martha per la perdita del fratello («Voglio seguirlo. E…») confluendo in un graduale cambio di atmosfera nel brano The Unanswered Question di Charles Ives, creando una sospensione spazio-tempo di grande intensità.

La terza parte diventa sostanzialmente un pot-pourri di Lieder schubertiani, che conferiscono ancor più frammentarietà a quest’opera-frammento, nonostante il tentativo di collegare il tutto in un continuum drammaturgico. Cercando le risposte alle domande esistenziali all’interno dei testi musicati da Schubert, si passa così dal tema della fuggevolezza del tempo dello splendido coro femminile a cappella Dreifach ist der Schritt der Zeit in una sorta di limbo-labirinto, alle atmosfere lunari di Grab und Mond (le anime con le loro valigie-fardelli), a Nachthelle (in cui si distingue per intensità il tenore dal colore schubertiano Jan Petryka), per finire con la schubertiade mortale, senza ritorno, di Der Wegweiser, durante la quale si ripristina la scenografia iniziale, in uno strano equilibrio tra sogno e realtà. Le scelte drammaturgiche e musicali di Guth, che ha concepito la messa in scena assieme al drammaturgo Konrad Kuhn e alla scenografia di Christian Schmidt, funzionano bene fino al Sanctus finale (dalla Messa in mi bemolle, D950), che risulta un po’ stucchevole o quantomeno straniante, se si considera una lettura che fino a quel momento voleva essere più psicologica che teologica.
Una produzione nel complesso ben riuscita anche grazie alla superba performance dell’Arnold Schönberg Chor di Erwin Ortner, precisa sia nella parte attoriale sia in quella musicale. Ottimo Kurt Schreit nel ruolo di Lazarus – dopotutto come il suo sosia danzante Paul Lorenger – e il resto del cast, tra cui si distinguono soprattutto Annette Dasch (Maria), Florian Boesch (Simon) e la Jemina di Çiğdem Soyarslan. Impeccabili i Wiener Symphoniker diretti da Michael Boder, che adotta tempi sempre consoni e sonorità adeguate, senza mai forzare alcuna drammaticità gratuita nella narrazione.
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