
A Torino il giovane pianista polacco si conferma raffinato interprete chopiniano; Pletnev alla guida dei cameristi di Brema propone una lettura beethoveniana incandescente, a tratti bizzarra
di Attilio Piovano
UN MINUTO DI SILENZIO nel ricordo di Claudio Abbado e le commosse parole del direttore artistico Francesca Camerana in apertura del quarto concerto della stagione di Lingotto Musica a Torino, mercoledì 22 gennaio: stagione che – ha ricordato la Camerana – di fatto non esisterebbe (più ancora non esisterebbe l’Auditorium Agnelli) se a propiziarne la nascita, venti anni fa, non ci fosse stato tra gli altri Abbado stesso. Poi le note iniziali dello chopiniano Concerto n° 2 in fa minore op. 21. Solista di lusso il giovane (polacco) Rafal Blechacz, ad accompagnarlo la (Deutsche) Kammerphilharmonie Bremen per la direzione del (russo) Mikhail Pletnev, un bel cocktail di nazionalità. Tecnica sicura e bel cantabile, Blechacz trascorre con souplesse dai passi di bravura impregnati di epos alle molte oasi liriche, con indugi calibrati e dolcissimi. Classe 1985, vincitore a soli 20 anni del prestigioso concorso di Varsavia, dove ha letteralmente sbaragliato, Chopin il giovane pianista deve avercelo nel sangue, addirittura nel DNA. Il concorso gli ha spalancato le porte del mondo musicale internazionale (ha già in tasca un contratto con la blasonata e selettiva DG, unico polacco dopo Krystian Zimerman e scusate se è poco) e già è stato diretto da bacchette illustri, da Gergiev a Dutoit a Pletnev stesso. Ammirato il gioco perlaceo in apertura dello sviluppo del primo movimento; poi il pianoforte – si sa – prende fuoco e allora slancio e vigore non sono mancati, contagiando l’intera orchestra che in apertura aveva mostrato qualche lieve esitazione poi subito rientrata. Blechacz suona con virile sobrietà, senza inutili leziosaggini, ma anche con grande eleganza. Ed ecco allora che il Larghetto (soprattutto) ha regalato emozioni: lì il pianoforte si libra in volo con la soavità delle fluenti broderies. Tocco sopraffino e sicurezza. E pazienza per qualche occasionale asprezza. Bene il concitato episodio centrale (coi tremoli in orchestra) raramente emerso nella sua fantomatica drammaticità. Da manuale, per pulizia, leggerezza e magnetismo la parte finale del Larghetto e il distillato dello spazioso arpeggio che lo conclude. Infine la fluttuante elasticità del finale, iridescente come una bolla di sapone, vigoroso, icastico, aitante comme il faut e nel contempo danzante. Applausi scroscianti e bis d’ordinanza: ancora Chopin (Valzer op. 34 n° 2 col bel cantabile della sinistra a mo’ di violoncello) e un brevissimo assaggio (le sole battute iniziali, chissà mai perché, come una citazione, un cammeo) del Preludio op. 28 n° 7.
Poi protagonista assoluta la sola orchestra di Brema impegnata nella pimpante e orgiastica Settima di Beethoven. I fiati non sono la sua sezione migliore, ma dispone di buoni archi e una innegabile coesione. Pletnev, pur compassato e flemmatico, ne ha dato una lettura incandescente, con qualche curiosa bizzarria (certi dettagli provocatoriamente portati in primo piano). Il celeberrimo Allegretto è piaciuto molto per il dosaggio millimetrico del crescendo, lo stacco dei tempi, l’esattezza dei vari (insidiosi) raccordi ritmici. Superba la Fuga al suo interno dal colore quasi chiesastico (che, nella suggestiva lettura di Pletnev, incoraggia il confronto niente affatto peregrino con il passo degli armigeri nel Flauto Magico). Iper-cinetico, super-vitaminizzato ed energetico il Presto, qualche intemperanza eccessiva nell’irresistibile Finale e tutti a nanna sulle note (fin troppo scontate e prevedibili a dire il vero) dell’inossidabile Air bachiana (la premiata ditta Piero Angela & Super Quark ringraziano per la citazione). Pubblico ovviamente estasiato (anche se oggi ben altre orchestre suonano papà Bach con criteri filologici lontani galassie dai pur validi cameristi di Brema che parevano averlo scambiato per l’Adagio di Barber o un tempo lento di Bruckner).
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