I due interpreti russi con la London Symphony Orchestra per un riuscito concerto al Lingotto di Torino
di Attilio Piovano
PROGRAMMA PIACEVOLMENTE INSOLITO quello scelto da Valerij Gergiev per il suo concerto alla guida della mitica e blasonata London Symphony Orchestra a Torino, martedì 8 aprile, per Lingotto Musica, istituzione con la quale il grande direttore ha ormai una pluridecennale e assidua consuetudine. Programma particolarmente adatto a porre in luce le eccezionali qualità della compagine in tutte le sue vaste sezioni, specie i superbi ottoni che si sono potuti ammirare già in apertura de L’Ascension, stupendo capolavoro giovanile di Messiaen. E allora quanta maestosa possanza e quanta ieratica solennità nella Majesté du Christ dai vistosi echi gabrieliani e dal forte impatto; poi quel clima di seducente esotismo e di vaporosa lievità nel secondo pannello (Alleluias sereins d’une âme qui désire le ciel), pagina magnifica specie sotto il profilo timbrico. Perfezione ritmica a dir poco stupefacente nel variegato terzo pannello, una sorta di Scherzo (Alleluia sur la trompette) innervato di brio, con archi e ottoni contrapposti e il climax di un poderoso fortissimo siglato dalle percussioni, quindi un fugato di corto respiro, ma di cartesiana esattezza che muove dalle catramose sonorità dei bassi. E infine la pacata dolcezza degli archi: esalano misticismo intrecciando morbide volute e filigrane nella conclusiva Prière du Christ montant vers son Père svaporando poi in un clima di eterea dolcezza. Stupenda ed emozionante interpretazione grazie ad una compagine di straordinario valore e ad una concertazione attenta, puntuale (a voler trovare a tutti i costi una minima manchevolezza, si sarebbe voluto forse un po’ più di vaghezza francese, un po’ più di indeterminatezza, qualche sfumatura più alonata, ma è pur vero che Messiaen non è Debussy, pur avendo in Debussy le proprie radici).
Altrettanto seducente è apparsa la vasta Seconda sinfonia del tardoromantico Skrjabin che Gergiev legge (molto opportunamente) come se fosse un unico getto, di fatto collegando gli ampi movimenti, concedendo appena un piccolo respiro all’orchestra. Ulteriore gran bella prova per la London Symphony ed i suoi strepitosi ottoni che brillavano fiammeggianti con spettacolare luminescenza nel conclusivo Maestoso dalle assonanze wagneriane (ma si sente anche l’eco di Bruckner e di certo Rimskij-Korsakov), dopo le brume indefinite dell’Andante d’esordio, inebriante come un profumo troppo intenso, poi seguito da un Allegro pervaso di inquietudine; grande perfezione dei legni nel serafico e pacificante Andante, poi le turbolenze del Tempestoso che immette nel Maestoso di cui si è detto.
A centro serata il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Liszt in un unico ‘blocco’ plurifrazionato, assai più moderno strutturalmente rispetto al Primo, pagina tuttora di sicura presa sul pubblico, nonostante certi passaggi gonfi di retorica e impregnati di vacuo trionfalismo, ritmi di marcia e via elencando. Mattatore di lusso Denis Matsuev (a Torino già lo avevamo ascoltato in Čajkovskij nel 2007 con Temirkanov e la Filarmonica di S. Pietroburgo poi nel 2009, nel Terzo di Prokof’ev, in entrambi i casi per MiTo, al Lingotto): suono granitico e corposo (molto granitico e talora fin troppo corposo, ma per Liszt ci può stare), tecnica agguerrita e sicura. Sa però estrarre anche bei colori, già nell’assorto intimismo dell’attacco, poi in certe zone oniriche e lunari che ricordano i Sonetti del Petrarca (è il caso del delicato arpeggio dal suono perlaceo che, seguito dai suoni ambrati del violoncello, introduce all’Allegro moderato). Perfetta l’intesa con l’orchestra, vera e propria simbiosi. Gran successo personale del pianista-atleta che ha (ovviamente) sbalordito nei plateali glissando conclusivi (gli manca però un certo qual sense of humour). Due i bis: le ipnotiche atmosfere da carillon della Tabacchiera musicale di Anatolij Liadov (Valse Badinage op. 32) e poi lo strabiliante virtuosismo di uno tra i più celebri e amati Preludi di Rachmaninov, quello in sol minore (il quinto dell’op. 23) dove il pianoforte ha modo di ruggire nei bassi come un’orchestra intera, come una macchina a pieno regime, ma con quella parte centrale caucasica impregnata di esotismo (russo, ça va sans dire). Esecuzione da manuale e scroscianti ovazioni. Gossip finale: inattesa presenza in sala del cantante Antonello Venditti (alla vigilia del suo recital nella medesima sala del Lingotto) attorniato di fans in caccia di autografi, per la serie: il pubblico è trasversale.
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