Tradotto in italiano il testo di Sandra P. Rosenblum pubblicato negli Stati Uniti venticinque anni fa. Qual è il significato di autenticità nell’interpretazione?
di Santi Calabrò
IL FATTO CHE UN LIBRO FONDAMENTALE per i musicisti venga tradotto e pubblicato in Italia dopo venticinque anni dall’uscita negli Stati Uniti induce a interrogarsi sia sulle cause che sulle conseguenze del ritardo. Nel caso di Prassi esecutive nella musica pianistica dell’epoca classica di Sandra P. Rosenblum, con prefazione di Malcolm Bilson (edizioni LIM, 2014; il libro, tradotto da Francesco Pareti, è pubblicato su iniziativa dell’Accademia dei Musici di Fabriano), il ritardo sembrerebbe causato dalla diffusa lentezza dell’editoria italiana rispetto all’acquisizione di studi sull’interpretazione musicale, corrispondendo a un’attenzione poco focalizzata su tale settore da parte della nostra musicologia. Approfondire le conseguenze di questi e di altri casi simili di ritardata ricezione porta però a una sorprendente constatazione: gli studi sulle prassi esecutive, ben prima della pubblicazione di questo libro, sono già penetrati in Italia e addirittura hanno influito sui nuovi ordinamenti dei Conservatori italiani! Purtroppo, nel tradursi in piani di studio, l’aggiornamento al filone di ricerca attualmente più promettente ha imboccato anche vie dogmatiche e distorsive, rispondenti piuttosto ai potenziali limiti ideologici di questi studi che al loro enorme valore euristico. In questo senso, l’indice più evidente è la presenza pervasiva della definizione “prassi esecutive” nei campi disciplinari di tutti gli insegnamenti di esecuzione musicale dopo la riforma avviata dalla Legge 508: al punto che chi si limita a leggere i nomi delle materie e le corrispondenti declaratorie ripartite per settore, può maturare la bizzarra convinzione che l’interpretazione musicale sia una mera questione di corretta correlazione tra “prassi esecutive e repertori” (di ciò nell’approfondimento qui a fianco). In coerente pendant a queste discutibili definizioni e concezioni va registrata l’assenza di discipline come “Teoria dell’interpretazione musicale” o “Storia dell’interpretazione” non solo nei settori disciplinari dei Conservatori, ma anche nei tanti corsi di laurea in musicologia esistenti in Italia.
Di converso, e a confronto di ciò, fra i meriti del libro di Sandra P. Rosenblum – che è bene leggere integralmente e con attenzione, e non certo presumendo che gli argomenti affrontati siano già conosciuti –, vi è proprio quello di definire in modo chiaro sia la prospettiva storica delineata da questa tipologia di studi, nella quale il libro di Rosenblum ha una rilevante posizione internazionale, sia il loro ruolo non totalizzante rispetto alla formazione e all’esperienza del musicista-interprete. Quanto alla prospettiva storica, l’accento è sempre posto da Rosenblum su aspetti non solo di ricognizione, ma anche di comparazione critica ed evoluzione delle fonti. Negli stessi anni di grandi trasformazioni culturali (i decenni tra Settecento e Ottocento) operano compositori epocali, al punto che la Storia della musica colloca proprio da quelle parti lo “stile classico”. Eppure, scorrendo la capillare trattazione di Rosenblum, si vede come nel confronto fra i trattati, le testimonianze e le partiture di musicisti che respirano la stessa aria, ogni questione di esegesi esecutiva sembri prendere delle sfaccettature diverse, si capisce come le transizioni stilistiche siano cosa ben diversa da pacifici cambi di paradigma, e si comprende come i fattori evolutivi diventino talora vorticosi nel percorso di un unico compositore (si pensi a Beethoven). A questo momento storico-culturale nodale corrisponde la trionfale ascesa di un nuovo strumento, il pianoforte, che nei suoi primi decenni di vita intreccia i suoi cambiamenti tecnici alle nuove esigenze artistiche in modi dei quali Rosenblum segnala brillantemente le implicazioni e le interrelazioni. Anche in Haydn, con ogni evidenza, alle innovazioni dello strumento corrispondono novità della scrittura; mentre la scelta di mantenere la doppia destinazione “per clavicembalo e pianoforte” nell’editoria dell’epoca è dovuta a motivazioni meramente “sociologiche”. La visione diacronica, l’acume analitico, la sottigliezza critica e la sensibilità nel cogliere il flusso dei processi evolutivi non abbandonano mai la trattazione di Rosenblum, studiosa ben distante da irrigidimenti dogmatici o sincronici. L’autrice regala i tesori di una doppia esperienza artistica, oltre che di una sconfinata erudizione; la conoscenza sia del “fortepiano” (l’antenato del pianoforte tra Settecento e Ottocento) che del pianoforte moderno consente a Rosenblum di indicare con rara efficacia come un pianista possa praticare produttivamente gli strumenti d’epoca, ma senza necessariamente fermarsi ad essi: piuttosto, trasferendo le esperienze acquisite – innanzitutto una migliore conoscenza della musica stessa – anche sul pianoforte moderno. Riprendendo la distinzione di Robert Donington tra “autenticità storica” e “autenticità sostanziale”, Sandra P. Rosenblum opera una scelta esplicita e decisiva:
I criteri riguardanti l’autenticità sostanziale mi sembrano più importanti. Lo scopo non è l’autenticità per sé, ma l’autenticità dell’interpretazione
Con un termine impegnativo come “autenticità”, tuttavia, i confini restano labili, e facili gli slittamenti. Come esempio di avvertibile irrigidimento verso una lettura storicistica in senso limitante, possiamo citare proprio le brevi considerazioni sulle legature iniziali della Sonata K 332 di Mozart nella prefazione di Malcolm Bilson: il confronto tra le considerazioni di Bilson e quelle ben più articolate sullo stesso argomento di Paul Badura-Skoda (L’interpretazione di Mozart al Pianoforte, ed. Zanibon), basterebbe a delineare sia le due tipologie ideali di autenticità che la loro tendenza a tramutarsi l’una nell’altra! Di certo, anche la condivisibile scelta di campo di Rosenblum, a favore dell’autenticità sostanziale, e la sua corrispondente accortezza di teorica, si realizzano in un quadro in cui è frequente il richiamo ad una “intenzione dell’autore” come termine ideale, senza il corrispettivo proporzionato di una “autonomia dell’opera” dalla stessa intentio auctoris: a questo tipo di squilibrio dei fondamenti, così tipico di tutti gli “autenticisti”, sembra soggiacere la stessa Rosenblum, almeno dal punto di vista delle enunciazioni di principio, sicché sembrerebbe che la pratica, la cultura e il buon senso siano il solo e sicuro antidoto al pericolo di perseguire l’autenticità per sé.
Con ogni evidenza non sempre ciò può bastare: se le “prassi esecutive” diventano una religione, un fine piuttosto che un mezzo, le stesse interpretazioni possono risultare meno interessanti. L’acronimo “HIF” – historically informed performance –, oggi di moda, dovrebbe limitare la sua funzione a un’indicazione metodologica per una lettura corretta, e non diventare il regolatore dei criteri dell’interpretazione. Bisogna però riconoscere come sia arduo cogliere in fallo Rosenblum in questa direzione; nel complesso, se questo volume costituisce una solida base di conoscenze per la cultura di un interprete, uno strumento esauriente e sempre criticamente acuminato rispetto al suo oggetto, ciò avviene proprio perché è scritto da un’artista di rara lucidità: il libro contribuisce anche a negare che l’interpretazione sia solo questione di studio delle “prassi esecutive”, di cui Sandra P. Rosenblum attenua le pretese totalizzanti con lo stesso gesto con cui ne fornisce la migliore trattazione disponibile.
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di Santi Calabrò
È difficile immaginare che i docenti dei Conservatori impieghino il loro tempo a confrontarsi con quanto c’è scritto nei “nuovi ordinamenti”. Per lo più continuano a regolarsi come facevano prima: ma ciò non è necessariamente un male! Ecco un esempio tratto dagli ordinamenti (declaratoria del Settore-artistico-disciplinare “Pianoforte”): «Il settore concerne l’acquisizione delle abilità tecniche e delle competenze […] necessarie per affrontare, con piena consapevolezza delle correlate prassi esecutive, i diversi repertori […]». L’aggettivo “correlate” non sta lì per caso; il campo disciplinare più importante e diffusamente attivato si chiama, per l’appunto, “Prassi esecutive e repertori”. La funzione della “e” sembra dunque inequivocabile: una congiunzione che per l’appunto congiunge e lega. Non si evince qui un’intenzione separativa come pure, a volte, la congiunzione assume nella lingua. Al contrario, per il legislatore italiano, ogni repertorio ha la sua prassi esecutiva!In realtà, chi conosce le dinamiche dell’interpretazione, nella formula “Prassi esecutive e repertori” trova un rapporto complesso, piuttosto che un quadretto di pacifica correlazione. Com’è noto, il concetto di “prassi esecutiva” ha la sua origine nell’ambito della “musica antica”, che a sua volta indica l’insieme delle musiche di cui si è interrotta per secoli la tradizione esecutiva; essa è perciò da ricostruire sulla base delle fonti teoriche e degli strumenti dell’epoca. È dunque evidente come un certo tipo di eccesso ideologico – riscontrabile a volte nel settore della musica antica – abbia influenzato concetti e terminologia estendendosi al di fuori del suo ambito. Chi si laurea in pianoforte o in violino suona prevalentemente il repertorio tradizionale, ma la sua performance dovrebbe ricondursi, secondo gli ordinamenti, alle “correlate prassi esecutive”. Eppure un interprete non potrebbe che sentirsi ingabbiato se, davanti a una pagina di Debussy o di Chopin o di Beethoven, gli si dicesse: il tuo principale, se non unico compito, è quello di ricostruire la prassi esecutiva adeguata, quella “storicamente autentica”. La stessa esistenza di registrazioni dei compositori in veste di strumentisti o direttori – da Debussy a Rachmaninov, da Mascagni a Stravinsky – evidenzia come le partiture siano per essenza refrattarie a qualsiasi “verità unica” interpretativa. La coerenza degli ordinamenti è però tale da sprezzare il ridicolo: visto che anche chi studia jazz in Conservatorio, ovviamente, vuole imparare a improvvisare, e visto che “repertori” non può in alcun modo essere sinonimo di strutture armoniche, applicare la logica delle prassi esecutive anche all’insegnamento del basso elettrico non sembrerebbe più materia di discussione musicologico-didattica, ma piuttosto una boutade. E invece è proprio così: “prassi esecutive e repertori” anche nel jazz!
Ecco perché si è ritardato un quarto di secolo per pubblicarlo in Italia: perché qui poi si fanno queste recensioni iperboliche e sostanzialmente inutili a sciogliere la domanda esistenziale: “lo prendo o non lo prendo?”