
Susanna Mälkki dirige la canadese Leila Josefowicz nella prima italiana del nuovo lavoro per violino e orchestra di Luca Francesconi, opera singolare dalle sonorità potenti; Orchestra Rai eccellente con Brahms in apertura e Haydn
di Attilio Piovano
SERATA AL FEMMINILE per l’OSNRai, a Torino (Auditorium Toscanini) per il concerto fuori abbonamento di venerdì 2 maggio (anche in diretta su Radio3): sul podio la finlandese Susanna Mälkki, direttore ospite principale della Gulbenkian Orchestra, una sfolgorante carriera presso le istituzioni di tutto il mondo (prima donna a dirigere alla Scala, nel 2011 e ancora nel 2014); solista la violinista canadese Leila Josefowicz, specialista del repertorio contemporaneo: e non a caso a lei è stata affidata la prima italiana del recente Concerto per violino e orchestra Duende, The dark notes (2013) di Luca Francesconi, commissione congiunta della Rai, della BBC e della Radio Svedese.
«Il Duende – avverte l’autore a mo’ di allusiva presentazione del lavoro – è storicamente il demone del flamenco. Come spiega Garcia Lorca è una forza sotterranea di inaudita potenza, che sfugge al controllo razionale». Egli dichiara poi la necessità di «compiere una perigliosa discesa negli inferi delle note nere, per ritrovare una forza primigenia nello strumento forse più carico di storia dell’Occidente». Ne è scaturita un’opera singolare. Per riferirne in maniera adeguata occorrerebbe ritornarci su con un ascolto plurimo e un’analisi della partitura. Quell’analisi che di certo devono aver ben condotto la Mälkki, la solista e i professori d’orchestra in sede di prova. Le impressioni di ascolto rilevano un inizio “ornitologico” fitto di evocativi richiami, sonorità chiare, una scrittura virtuosistica che ha messo in luce le eccezionali capacità della Josefowicz, una contestura quasi cameristica, nonostante il vasto organico. Il violino pare ingaggiare una lotta metaforica con l’orchestra, solista e compagine sembrano rincorrersi vicendevolmente. Non mancano le atmosfere suggestive, frasi eccitate e acuminate come stalattiti, colori per lo più raggelati, emersione di timbri puri, nulla di agglutinato, strappate ruvide, glissandi, rintocchi di campane, nette cesure e staffilate di contrabbassi (nelle prime tre sezioni connesse l’una all’altra a formare – sembrerebbe, ma è da verificare in partitura – un unico macro movimento). Poi in Ritual ritmi forsennati, un clima come di invasamento generale, complesse poliritmie, un germinare incessante di frasi, parossismo degli ottoni e vibranti tremoli degli archi. Quindi il clima onirico, lunare dell’ultima parte, che precede la lunga cadenza del solista (tiene alta la tensione e si sta come dinanzi ad un acrobata sul filo sospeso, armonici, frasi tese e un singolare range di dinamiche). In tale sezione, sfociante nella cadenza, per contro tutto è relativamente omogeneo, quasi estenuato, il solista esala languorosi sospiri come di cante jondo, avvolte dalle spire agrodolci e dalle sonorità rauche dell’accordéon ad aggiungere un tocco di fisicità carnale. Infine l’arpa introduce l’ultima parte (Hypnotic) e pare una citazione da certi topoi raveliani, con quel gocciolio arcano e la ripresa degli elementi iniziali, ma a porre fine al tutto, inaspettatamente, un conciso e fin provocatorio pizzicato.

Applausi convinti ad entrambe le protagoniste cui va il merito di aver saputo mantenere alta la tensione e l’attenzione in un opera di oltre 25 minuti dai climi talora suggestivi, lontana da facili effettismi, ma altresì lungi da certa greve sterile avanguardia. Come sempre, ammirata l’alta professionalità dell’OSNRai che trascorre dal barocco al contemporaneo con una incredibile souplesse. E proprio nel segno delle baroccheggianti (e sublimi) Variazioni op. 56 di Brahms su un tema di Haydn s’era aperta la serata. Un inizio un po’ monocromo, ma poi Mälkki – gesto chiaro, elegante ed esuberante nel contempo – ha saputo cesellare con cura le variazioni più delicate, sfoderando notevole energia, giù giù sino al finale in forma di Passacaglia (avviato in maniera un po’ incerta, coi bassi afoni, ma poi andato decollando sino all’ebbro saettare dell’ottavino).
In chiusura la gioia di ritrovare in sala da concerto papà Haydn, autore oggi sempre meno frequente, ed è un vero peccato. Della sua penultima Sinfonia, la n° 103 in mi bemolle maggiore detta “rullo di timpano” e appartenente al novero delle superbe “Londinesi” Susanna Mälkki ha perfettamente colto l’esprit, dirigendola in maniera esemplare (e di certo deve averle dedicato il giusto tempo in sede di accurata concertazione). Dunque lo humour spensierato del primo tempo, luminoso e un po’ naïf, dopo l’incipit cupo, sfuggente ed enigmatico. Poi le ombreggiature dell’Andante dalle policrome variazioni che ben si saldano all’esordio di serata con il Brahms dell’op. 56, la bonomia rustica e bonaria del Minuetto e infine lo spigliato vitalismo del Finale innervato di brio. Gran bella prova dell’orchestra cui fa bene, talora, dopo tanto repertorio romantico e tardo romantico, ritornare alla trasparenza dei classici. Unico neo: pubblico davvero scarso, forse per la concomitanza del ponte del 1° maggio.
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