Tristan und Isolde di eleganza italiana inaugura il Maggio Musicale Fiorentino, con la direzione di Mehta, la regìa di Poda e una compagnia di canto sorprendente. L’indomani è il turno di Richard Strauss con un concerto monografico, dove spiccano le qualità vocali ed espressive della Harteros
di Francesco Lora
DA ANNI ERA STATO PROMESSO UN PARSIFAL, poi si era pensato a un recupero della Frau ohne Schatten (due recite su quattro saltate, per sciopero, nel 2010). Infine, per l’inaugurazione del 77o Maggio Musicale Fiorentino, Richard Wagner l’ha spuntata su Richard Strauss, con quattro recite di Tristan und Isolde (30 aprile – 11 maggio). A Strauss è invece spettato il primo dei concerti, con un programma monografico a festeggiare i suoi 150 anni (3 maggio). Poca novità nel cartellone di un festival nato per la riscoperta di titoli d’opera rari, e sala del Teatro Comunale ancora una volta lontana dal tutto esaurito (la crisi di pubblico a Firenze è problema annoso e mai risolto). Statura artistica degli spettacoli, per contro, superiore alle aspettative: un toccasana dello spirito in un periodo, come quello attuale, dove le nuove e sempre più smunte stagioni d’opera italiane affievoliscono l’entusiasmo e le speranze del musicofilo itinerante.
La chimera del ‘suono wagneriano’ è evocata dalla critica musicale pressoché a ogni passaggio del primo Richard per i nostri teatri. La formula indica quella peculiare polpa delle orchestre germaniche con ottoni squarciati e debordanti e infallibili, legni usati come pennelli o sacri crismi, e archi abili nel tenere la frase tesa e densa nonostante i tempi larghi della tradizione. Una dimensione più tecnica che espressiva, non connaturata alle orchestre italiane (differenti per formazione, attitudine, talvolta fattura stessa degli strumenti).
Diretta da Zubin Mehta, l’Orchestra del MMF non ha corrisposto il chimerico suono. Ha corrisposto invece uno tra i più pregiati suoni italiani mai prestati a Wagner, dando luogo a un Tristan inedito per colori e porgere. Dai tempi dei Troyens di Hector Berlioz (2002) non si ricordava un Mehta fiorentino più coinvolto, ispirato, amorevole. Una lettura memorabile, dunque, condotta su tempi indugianti, su impasti volatili, su fraseggi sospirosi, su timbri di pastello. Un Wagner dove l’orchestra canta sempre e dove i cantanti trovano nel golfo mistico un sostegno anziché una barriera.
La compagnia di canto è un baule di sorprese: in apparenza raffazzonata all’ultimo momento, acchiappando gli artisti rimasti liberi sulla piazza, essa dimostra invece una rara tenuta tecnica e un raro piglio interpretativo. Lioba Braun, per esempio, è un mezzosoprano di celebre esperienza wagneriana, cui però competono le parti di Ortrud, Fricka, Brangäne e Kundry. Trovarla come Isolde a Firenze pareva un azzardo: ed ecco invece che il suo corposo registro centrale si traduce in accento bruciante, ora imperioso ora appassionato; l’ascesa stessa al registro acuto, per lei non facile, è risolta con tutta la necessaria sorvegliatezza e con esito di inattesa attendibilità.

Come Tristan, Torsten Kerl ha ottima intesa con la primadonna, modi franchi e pensosi, e supera con invidiabile resistenza l’infinito monologo dell’atto III. Piace, in Julia Rutigliano e a fianco di un’Isolde scura e impetuosa, ascoltare una Brangäne chiara e lirica, altrettanto e reciprocamente inedita, così come piace il Kurwenal di Martin Gantner, baritono utilité dell’Opera di Stato Bavarese, interprete stilizzato e personaggio sgravato da certe esuberanze paesane di tradizione. Difficoltà nel registro acuto, con sbandamenti d’intonazione e brusche fratture di fraseggio, inficiano invece la prova di Stephen Milling come Re Marke, a dispetto di una voce robusta e maestosa. Assortito senza macchia il comprimariato: il Melot di Kurt Azesberger, il Pastore e il Marinaio di Gregory Warren, il Pilota di Italo Proferisce.
Regìa, scene, costumi, luci e coreografia sono tutti firmati da Stefano Poda, con l’assistenza di Paolo Giani. Egli concepisce uno spettacolo astratto, lunare, tagliato da raggi d’oro o d’argento, con una nave che è una piattaforma sospesa, e con un paesaggio sabbioso dove una cascata di granelli scende costante dal primo all’ultimo minuto dell’opera. Elementi simbolici sono sparsi qua e là, con un ermetismo che fa passare la voglia di indagare oltre; ma il colpo d’occhio è suggestivo, onirico ed enigmatico, e si fonde coerentemente con la lettura musicale sospesa e soffusa di Mehta.
Una nota al merito, a piè di pagina, per un’iniziativa del MMF al Teatro Goldoni (4 maggio): un concerto-aperitivo mattutino e domenicale, nel quale sono stati presentati al pubblico giovani artisti (il soprano Caterina Poggini e i pianisti Marlene Fuochi, Antonino Fiumara, Daria Aleshina, Yun Hwa Jung, Debora Tempestini e Mattia Fusi) in un programma tutto pensato intorno al Tristan della recita pomeridiana: due dei Wesendonck-Lieder (bozzetti preparatori all’opera), tre parafrasi di Carl Tausig e una di Franz Liszt, infine i Souvenirs de Munich di Emmanuel Chabrier (dove la dissacrazione di alta scuola è al primo posto: i temi dell’opera di Wagner divengono una festosa quadriglia a quattro mani).
Nel concerto straussiano, Mehta, l’Orchestra e il Coro del MMF hanno invece percorso la carriera del compositore, dal giovanile Wanderers Sturmlied (1884) fino al testamento dei Vier letzte Lieder (1846-48); dal mezzo della cronologia sono attinti poi il poema sinfonico Till Eulenspiegels lustige Streiche e il tardo Concerto in Re maggiore per oboe e piccola orchestra (solista il morbido Alberto Negroni, tenera la genesi del brano: il vecchio Strauss fu persuaso a comporlo nel 1945 da un soldato-musicista dell’esercito statunitense, mentre la Germania era devastata dalla guerra e sotto occupazione). Nella lettura dei brani non si ripete l’incanto del Tristan, ma in Mehta rimane eccellente la capacità di caratterizzazione singola di partiture tanto differenti tra loro per forma ed ethos, mentre l’Orchestra riconferma le proprie doti di metallica levità (quasi un ossimoro) e il Coro quelle di epica sontuosità (onore al maestro Lorenzo Fratini).
Nei Lieder è solista Anja Harteros: averla appena ascoltata al Festival di Pasqua di Salisburgo negli stessi brani (14 e 19 aprile), con la direzione di Christian Thielemann e la Staatskapelle di Dresda, in un contesto di dedizione ed emozione non replicabili a Firenze, non aiuta a entusiasmarsi di fronte a una lettura vocale altrettanto attenta, ma suo malgrado inserita in una visione orchestrale più frettolosa e convenzionale; a proposito di Salisburgo, chi qui scrive ha là scritto: «la sua voce conserva omogeneità timbrica da un capo all’altro dell’ampia tessitura richiestale, e vede inusualmente convivere nel timbro il carnoso e l’impalpabile, il brunito e il luminoso, quasi fosse possibile riunire in un solo caso la memoria di Gundula Janowitz e Jessye Norman. Ciò che commuove ancor maggiormente, la Harteros intona ogni testo senza traccia di enfasi o affettazione, con una naturalezza e una semplicità più rare di ogni sofisticatezza. È la voce di una donna che canta poesie. È tout court la voce della musica di Strauss». Tanto vale ripetere l’agiografia, con immutata ammirazione, di fronte alla grande artista.