
Concerto conclusivo del festival Milano Musica: eseguite pagine di Fausto Romitelli, Giovanni Verrando, Riccardo Nova. Protagonista l’ensemble che è stato insignito del Leone d’argento nel 2011: suonano a click e non hanno direttore. Sono coraggiosi e visionari. L’occasione offre degli spunti per molteplici riflessioni sulla contemporaneità
di Renato Rivolta
SE DOVESSIMO RIASSUMERE IN UNA PAROLA l’impressione principale avuta all’ascolto del concerto di RepertorioZero, senza temere di cadere nella retorica, si potrebbe usare – senza alcuna ironia – la parola Coraggio.
RepertorioZero è un gruppo di compositori, informatici musicali, strumentisti, nato principalmente intorno a un’idea semplice quanto rischiosa, e forse utopistica: inventare una nuova liuteria, cioé nuovi strumenti musicali, acustici o assistiti dal medium informatico, adeguati allo stato dell’arte della ricerca musicale contemporanea; e insieme inventare il repertorio per valorizzarli.
Dunque una ipotesi coraggiosa e visionaria, Ai confini della terra fertile per dirla con Boulez, sullo sviluppo futuro della musica, che evidentemente gli animatori di Repertorio Zero prevedono destinata ad arricchirsi di tutte le risorse fornite dall’ informatica applicata a strumenti vecchi e nuovi; siano essi gli strumenti tradizionali ripensati, riutilizzati in modi inediti; siano essi oggetti di comune impiego quotidiano tra i più impensabili per l’impiego musicale (frullatori, giocattoli, radioline, trombette, campanelli, sveglie,ogni sorta di oggetti sonori) ma i cui suoni risultano fertili e interessanti da utilizzare in un lavoro compositivo complesso.
Nel contesto attuale della musica contemporanea, dove la spinta propulsiva delle avanguardie del secolo scorso si è indebolita e stenta a proporre nuove ipotesi estetiche convincenti al suo pubblico, disperdendosi in una poliforme galassia di neo-accademismi, trovarobato, suggestioni modaiole, RepertorioZero persegue la sua ricerca con grande radicalità e rigore, e si caratterizza ormai come punta avanzata e laboratorio-modello imprescindibile per tutti coloro che si occupano di ricerca pura sul linguaggio musicale contemporaneo – e forse futuro, chissà; oltre che nell’altissima qualità delle esecuzioni strumentali, che si avvalgono di un gruppo di musicisti già ben noti e affermati individualmente, e completamente dediti alla missione di rendere il miglior servizio possibile ai compositori.
Il concerto conclusivo del Festival 2014 di Milano Musica, quest’anno dedicato alla figura del compositore Fausto Romitelli, del quale immaginiamo i lettori conoscano almeno per sommi capi la vicenda artistica e umana, e sulla figura del quale dunque non ci dilungheremo, comprendeva l’esecuzione del ben noto trittico per ensemble amplificato Professor Bad Trip I, II, III, alternato a due nuove opere di Giovanni Verrando e Riccardo Nova, compositori milanesi che hanno condiviso con lo stesso Romitelli gli esordi delle loro carriere musicali, e che per questo motivo hanno ricevuto dal Festival la richiesta di comporre nuovi lavori, “ispirandosi” o comunque ricollegandosi al lascito artistico del compositore goriziano-milanese.
Eviteremo di addentrarci nei dettagli compositivi delle singole opere, estremamente interessanti da più punti di vista: ma sarebbe inutile scriverne qui, non essendo questa una normale “recensione”, e nessuna descrizione potendo sostituire l’ascolto diretto. Ci limiteremo quindi a proporre qualche riflessione di ordine più generale che la serata ha suscitato in chi scrive.
SOUND
Innanzitutto impressionava l’impatto puramente fonico del concerto: sappiamo che l’amplificazione dell’ensemble strumentale ad alto volume è strutturalmente consustanziale all’estetica romitelliana, che fonde la lezione del pensiero compositivo della scuola spettrale francese degli anni Settanta con la potenza fonica, l’impurità e la visceralità del sound del Rock e del Pop: e non a caso tra gli strumenti dell’ensemble vi sono chitarra e basso elettrici e sintetizzatore, a fianco dei consueti archi, fiati, pianoforte, percussioni eccetera.
Il suono amplificato – ma forse a questo punto si dovrebbe chiamarlo sound – che si é ascoltato era di grande ricchezza e potenza, al quale gli ascoltatori della musica contemporanea tradizionale (ci si passi l’ossimoro) non sono abituati. E già questo è un elemento di immediata evidenza, che contraddistingue i concerti di RepertorioZero. La complessità delle opere eseguite, nelle quali sono integrati strumenti acustici, elettrici, informatici, esige certamente una amplificazione molto raffinata per bilanciare e fondere insieme le diverse fonti sonore fino a costituire un unico sound, al tempo stesso dettagliato, ricco e potente.
Ma non c’è solo un motivo meramente acustico, tecnico, perché l’amplificazione sia così potente e invasiva: c’è una precisa scelta estetica, coerente con il linguaggio scelto, che (consapevolmente o meno) emula anche, come già detto, l’impatto sonoro dei concerti rock. Ci si potrebbe chiedere se non vi sia una qualche involontaria contraddizione tra la sostanza strutturalmente complessa delle composizioni presentate, che esigerebbero un ascolto concentrato e vigile, e la ipertrofica, fusionale veste sonora con la quale sono presentate: che invece sembra invitare a un ascolto più viscerale, abbandonato, irrazionale, sul modello appunto del linguaggio rock-pop.
Infatti la visceralità magmatica, tellurica di almeno quattro delle cinque composizioni eseguite, le ondate di materia incandescente che scaturiscono dall’amplificazione, fanno pensare all’espressionismo violento dello Schoenberg prima maniera. Nelle sue opere “liberamente atonali” intorno agli anni Dieci egli dichiarava di comporre seguendo esclusivamente le proprie emozioni ed intuizioni, senza altra disciplina particolare, affidandosi alla guida di quello che in quegli stessi anni il dottor Freud definiva l’Inconscio. Anche lui, Schoenberg, componeva in quel periodo incubi sonori, visioni allucinatorie, stati di coscienza alterati, fissità raggelanti, colate di magma rovente: penso in particolare ai pezzi più potenti dell’op.16, dove la grande orchestra diventa amplificatore, ad altissimo volume, dell’ UrSchrei espressionista.
Il pendolo della storia oscilla perennemente, e così, dopo l’indigestione razionalistico-cartesiana del serialismo Leibniziano e dopo il pensiero debole del postmodernismo, si direbbe che i nipotini di Darmstadt – lo diciamo qui affettuosamente, con un sorriso scherzoso ai compositori della serata – volgano nuovamente lo sguardo all’irrazionale, mediato in parte anche attraverso il filtro più connaturato alla loro generazione: la musica rock, con tutto il suo contesto psichico-antropologico-rituale.
Ma con in più, forse, anche un certo barocchismo, un gusto dell’abbellimento, della ghirlanda a festone floreale, del dettaglio nascosto, sapientemente cesellato, che solo un attento ermeneuta può scoprire nell’intrico della giungla amazzonica sonora, e trarne la sua brava soddisfazione di ascoltatore strutturale. Questo gigantismo fonico, e la sua implicita, inevitabile retorica magmatico-viscerale, lo si associa instintivamente volentieri, per qualche perverso labirinto del pensiero, a quello delle enormi compagini orchestrali post-romantiche dal suono super vitaminizzato, dalla agitazione ipercinetica e dalla timbrica saturata: come anche al medesimo tipo di gigantismo e cinetismo rock degli anni Settanta, con i suoi distorsori e i suoi muri di amplificatori Marshall. Ma non è tutto.
DRAMMATURGIA
Il concerto assume una nuova forma rituale anche nel suo stesso svolgersi scenico, drammaturgico. All’inizio, a luci basse, un drone (un continuum sonoro computerizzato tratto dalla parte elettronica finale di uno dei Professor Bad Trip) crea un ambiente emozionale vagamente science-fiction, e su questo sfondo i musicisti entrano in scena e prendono posto: al salire delle luci parte la prima esecuzione strumentale, al termine della quale torna il drone che sonorizza emozionalmente la preparazione dei musicisti per l’esecuzione del pezzo successivo, e così via fino alla conclusione del concerto, che fila in tal modo senza interruzioni, inibendo ogni applauso: che può scatenarsi, scrosciante e liberatorio, solo alla fine dell’intera performance.
È degno di nota anche un particolare dettaglio scenografico: le sedie sulle quale stanno gli strumentisti sono curiosamente legate a coppie di funi pendenti dall’alto, e la scena assomiglia così, con ironia forse involontaria, a un bizzarro teatro di marionette. Si tratta insomma complessivamente di una studiata drammaturgia, intesa ad evitare la ritualità del concerto tradizionale, e a favorire uno stato di ininterrotta fascinazione, analogo a quello indotto da sostanze psicotrope. Anche qui, ci si permetta con una innocente battuta di osservare che il fantasma del Gesamtkunstwerk oltre a quello dei Pink Floyd sembra aleggiare nella sala.
AUTONOMIA
E ancora non è tutto: bisogna far cenno a un ulteriore elemento essenziale dell’interpretazione, e cioé ancora una volta al grande coraggio esibito dai musicisti di RepertorioZero nell’eseguire tutto il concerto senza l’ausilio di un direttore d’orchestra.
Pur consistendo il programma di brani dall’organico numeroso e dalle difficoltà esecutive rilevanti, che richiederebbero una figura di coordinamento, è stata fatta la scelta di eseguirlo guidati, per quanto riguarda il mero sincronismo dell’assieme, esclusivamente dal click che ogni strumentista riceve via radio nel proprio auricolare. Al di là della oggettiva maggiore difficoltà pratica, e il notevole numero di prove necessarie, la rinuncia alla figura del direttore appare significativa da più punti di vista.
Innanzitutto, ancora una volta pare alludere alla prassi dei concerti rock-pop, nei quali non si é mai vista la presenza di un direttore d’orchestra: salvo rare eccezioni, quali ad esempio Frank Zappa, il quale talvolta si improvvisava direttore per le sue composizioni più complesse.
In secondo luogo, vale come segno palese, sopratutto nella sua evidenza scenica e teatrale, della volontà di essere autonomi e non affidare il taglio interpretativo alla mediazione di un direttore che potrebbe essere più un ostacolo che un aiuto, o non risultare del tutto conforme al pensiero estetico di RepertorioZero, che si candida legittimamente ad essere il depositario della interpretazione autentica dell’estetica romitelliana, e intende evidentemente fissare un punto di riferimento imprescindibile per altri che vi si vogliano cimentare da ora in poi. Una sorta di filologismo contemporaneo, insomma.
In terzo luogo appare, ed è effettivamente, una grande esibizione di virtuosismo strumentale, che si aggiunge agli altri elementi scenico-rituali del concerto, e che il pubblico non può non apprezzare.
Va considerato inoltre un ultimo elemento teatrale e scenico non marginale: la presenza di un direttore in mezzo alla scena avrebbe ostacolato la visione di alcuni dei musicisti da parte del pubblico, e con le sue inevitabili coreografie avrebbe impedito allo stesso pubblico di focalizzare l’attenzione visiva esclusivamente sugli strumentisti e sul loro suonare: il che sembra essere il centro del messaggio visuale di RepertorioZero.
ALIENAZIONE?
Infine, una riflessione sorge alla mente, nell’assistere a una esecuzione live nella quale ogni singolo strumentista é legato al proprio click, concentrato su se stesso, con la sua cuffia in testa e davanti al proprio monitor audio. La domanda è: questo è suonare insieme ? Non lo è più certamente nel senso tradizionale della parola: appare piuttosto una cosa simile all’overdubbing che si pratica in sala d’incisione. Ogni strumentista esegue la sua parte non più insieme agli altri ma piuttosto sopra gli altri, anche se in contemporanea.
La questione pare presentare degli aspetti problematici perfino a livello filosofico: si potrebbe in questo caso parlare di alienazione del musicista che, collegato al suo click, è allo stesso tempo presente ma anche assente dalla effettiva condivisione in tempo reale dell’ interpretazione? Quanto controllo ha il singolo strumentista non soltanto sul suono globale dell’ensemble, che viene ovviamente forgiato e bilanciato in ultima analisi dal tecnico seduto dietro il mixer al centro della sala (in pratica, il vero direttore dell’esecuzione), ma anche sul come il proprio suono personale venga integrato e/o distinto da quello degli altri?
Come si vede, applicare a un ensemble strumentale proveniente dalla tradizione accademica (fatti salvi chitarra e basso elettrico) le tecniche di amplificazione, monitoring, overdubbing normalmente applicate in altri campi implica delle problematiche degne di approfondimento. Ma è lontano mille miglia dal nostro pensiero ogni scetticismo, ogni pregiudizio nei confronti della tecnologia in generale, e tanto meno su quella applicata alla musica, e siamo certi che col tempo e con l’abitudine a queste diverse modalità esecutive, i problemi tecnici e quelli interpretativi troveranno un loro equilibrio ottimale.
IL PENDOLO DELLA STORIA
Come abbiamo cercato di spiegare in questo resoconto, la sostanza intellettuale della ricerca di RepertorioZero è rigorosa e di alto livello: e anche se la veste esteriore della performance sembra suggerire una estetica della percezione quasi allucinatoria, che rimanda a stagioni più underground, la concreta realizzazione del concerto – che esige risorse tecnologiche ed economiche notevoli – si prende cura con grande attenzione di ogni singolo aspetto, da quello esecutivo a quello sonoro a quello drammaturgico.
Siamo quindi di fronte a un progetto di grande interesse, che potrebbe svolgere un ruolo positivo nello sviluppo futuro di quella che una volta si chiamava la musica d’avanguardia. In un tempo nel quale si dà per scontata la fine delle avanguardie e molti si affannano nella corsa a improbabili contaminazioni più o meno riuscite, viene da pensare che mai come oggi scegliere la strada dell’avanguardia, se lo si fa con questo coraggio e rigore, sia ancora e sempre la cosa giusta da fare.
Il pendolo della Storia e delle mode oscilla continuamente, e forse, dopo un lungo periodo, sta per approdare nuovamente sul lato giusto ?