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Rossini a Marsiglia: il ritorno del «Moïse»

di Francesco Lora
23 Novembre 2014
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Foto Christian Dresse
Foto Christian Dresse

Nel massimo teatro provenzale, il Grand opéra torna in forma di concerto e diviene il trionfo della musica: Arrivabeni dirige una compagnia di canto eccezionale, dominata da Abdrazakov, Massis e Ganassi


di Francesco Lora


È UN’ARTE ANCHE QUELLA DI ORGANIZZARE UNA STAGIONE D’OPERA, ossia di ideare un percorso coerente anziché mettere in fila titoli a caso. L’Opéra di Marsiglia dimostra avvedutezza anche in questo senso: nel prossimo dicembre, accanto all’Elisir d’amore di Donizetti sarà eseguito Le philtre di Auber, dal libretto del quale deriva pari pari quello di Romani. Ecco un modo di offrire all’ascolto il melodramma arcinoto sotto una luce più vivida, e per recuperare l’opéra-comique citata sì nella storia della musica ma oggi assente dalle scene. Non è un caso isolato. A Marsiglia è appena stato eseguito, in forma di concerto e in quattro date (8-16 novembre), il Moïse et Pharaon di Rossini: questa partitura-cardine dell’Ottocento francese, dopo aver girato il mondo nelle sue versioni ritmiche italiane, comporta oneri notevoli ed è oggi allestita di rado (indimenticabili e senza séguito, per esempio, le recite milanesi, salisburghesi e romane dirette da Riccardo Muti). Non bastasse, il teatro marsigliese ha affiancato al capolavoro rossiniano un altro capolavoro basato sullo stesso soggetto e ancor più raro (prima ripresa in età contemporanea): Il Mosè legato di Dio e liberator del popolo ebreo di Giovanni Paolo Colonna, dotto oratorio concepito da uno tra i più eminenti compositori del secondo Seicento italiano per la corte modenese di Francesco II d’Este (una sola affollatissima esecuzione, il 13 novembre nella chiesa di Saint-Michel, diretta da Jean-Marc Aymes alla testa del suo Concerto Soave).

L’esecuzione concertistica del Moïse et Pharaon sembra premiare anziché penalizzare gli aspetti espressivi, teatrali e strutturali dell’opera. Non disturbati dalle bizzarrie di un regista odierno – quello che non cerca nemmeno di comprendere i contenuti del testo, sovrapponendovi invece una propria idea affatto estranea – i cantanti possono restituire le parole e la musica cesellando accenti e colori, e il direttore Paolo Arrivabeni può realizzare il sogno proibito del melomane: a questo Moïse et Pharaon mancano sì le danze dell’atto III, ma per il resto la partitura è lasciata intatta, con tutte le sue repliche non toccate da tagli, e anzi abbellite dalle fantasiose variazioni di prassi; a loro volta i due ben distinti gruppi degli egizi e degli ebrei, l’uno alla destra e l’altro alla sinistra del direttore, evidenziano la frequente scrittura a doppio coro (offuscata, invece, quando i cantanti siano in movimento sulla scena, egizi mescolati con gli ebrei). Non è forse una lettura di genio, quella di Arrivabeni, ché l’orchestra potrebbe trovare maggior brillantezza, incisività e forza narrativa; ma è una lettura di palese solidità tecnica, competenza stilistica e abnegazione artistica: tutta merce di valore non comune e degna di vera gratitudine. Validissimo è a sua volta il coro residente, e non tanto per la pienezza di suono e la varietà di colori quanto per la scultoreità di pronuncia, quale si potrebbe avere solo da una compagine madrelingua.

La compagnia di canto è attendibile come poche altre si possano ipotizzare. Nella parte del profeta biblico, Ildar Abdrazakov ha lo stesso timbro esotico, la stessa facilità estensiva e la stessa morbidezza di linea già dimostrati sotto la direzione di Muti, e di quella lezione conserva ancora la forbitezza del fraseggio. Pharaon riceve da Jean-François Lapointe il materiale e l’acume di quello che è oggi, con Ludovic Tézier, il baritono francofono tecnicamente più ferrato: ha l’autorevolezza dell’accento nei recitativi non meno che una coloratura decorosa nello scabroso duetto con Aménophis. Quest’ultimo spetta a Philippe Talbot, che non ha sopracuti di forza da cannoneggiare alla Filippeschi né il timbro semidivino di Filianoti, ma che aggiunge un nuovo tassello alla riabilitazione della corretta vocalità da haute-contre: canto a un soffio dall’androginia timbrica, ascese soavi anziché impetuose e un porgere energico che rimette i conti in pari con la virilità del ruolo. Al suo fianco, Annick Massis dà vita a un’Anaï da manuale: è ineccepibile nel rivelare le minuzie espressive, retoriche e persin fonetiche di un libretto scritto nella lingua madre, e lo è altrettanto nel dominare le diavolerie belcantistiche di un Rossini che occhieggia ancora a Napoli e alla Colbran; il suo imminente passaggio alla Mathilde del Guillaume Tell non potrebbe dunque sembrare più urgente e solido di spalle.

A Marsiglia si era pensato in grande: all’Anaï della Massis doveva affiancarsi la Sinaïde di Mariella Devia. Questa ha tuttavia rinunciato per necessità di riposo, e le recite sono state divise tra due floridi mezzisoprani. La prima Sinaïde è stata dunque Sonia Ganassi, meno duttile e fresca rispetto alla prova scaligera di undici anni fa, ma risoluta nel voler scoccare ogni freccia rimasta all’arco: se non vinto con sé stessa, il confronto tiene tuttora alla larga le concorrenti. La seconda Sinaïde è stata invece Enkelejda Shkoza, che commette l’errore di investire tutto nel velluto timbrico: accentuandolo con esibite inflessioni contraltili, ella toglie sicurezza e smalto al registro acuto, e nella grande aria finale dell’atto II rischia di sbandare proprio laddove la Ganassi si riconsacra un monumento. Per misura espressiva, calore timbrico e fine dizione, Lucie Roche dà luogo a una Marie ideale. E tutto il comprimariato dà invero prova di eccellenza: l’Aufide di Rémy Mathieu è stilizzato e puntuale, e l’elegante Éliézer di Julien Dran saetta acuti con ammirevole sicurezza. Quanto all’Osiride e alla Voce misteriosa, Nicolas Courjal fa infine balzare sulla poltrona: straordinario interprete anche della parte di Faraone nell’oratorio di Colonna (dove minia ogni frase con pregnanza commovente e fasto timbrico alla Siepi: un entusiasmante schiaffo alle vocine oggi impiegate in quel repertorio), nelle due parti rossiniane egli risuona come un organo e fa ricordare quali armonici dovrebbe avere un’autentica voce di basso.

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Francesco Lora

Francesco Lora

È laureato in Discipline dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo, e dottore di ricerca in Musicologia e Beni musicali (Università di Bologna). Con Elisabetta Pasquini dirige la collana «Tesori musicali emiliani» (Bologna, Ut Orpheus, 2009-) e vi pubblica in edizione critica l’Integrale della musica sacra per Ferdinando de’ Medici di Giacomo Antonio Perti (2010-11) e oratorii di Giovanni Paolo Colonna (La profezia d’Eliseo, L’Assalonne, Il Mosè legato di Dio e La caduta di Gierusalemme, 2013-21). Sue la monografia Nel teatro del Principe (sulle opere di Perti per Pratolino; Torino-Bologna, De Sono - Albisani, 2016) e l’edizione critica del manoscritto viennese Austriaco laureato Apollini (musiche di Ferdinando Antonio Lazzari, Giovanni Perroni e Francesco Maria Veracini, eseguite a Venezia, 1712, per l’incoronazione imperiale di Carlo VI d’Asburgo; Padova, Centro Studi Antoniani, 2016). Attende alla nuova catalogazione degli archivi musicali della Basilica di S. Petronio in Bologna e dell’Opera della Metropolitana di Siena, nonché, con Giulia Giovani, alla ricognizione e all’edizione dell’epistolario di Perti (Università di Siena). Collabora alla Cambridge Handel Encyclopedia, al Dizionario biografico degli Italiani, al Grove Music Online e alla Musik in Geschichte und Gegenwart. Dal 2003 è critico musicale per testate giornalistiche specializzate, inviato nelle massime istituzioni di spettacolo europee; collabora col «Corriere musicale» dal 2013. Nel 2020 la Fondazione Levi di Venezia gli ha conferito il Premio biennale “Pier Luigi Gaiatto”.

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