Scenari minimalisti per la nuova produzione scaligera del titolo verdiano. Ottima e attenta ai dettagli la direzione musicale
di Luca Chierici
NON È STATO FACILE, NEI PRIMI MINUTI di questa nuova Aida firmata da Peter Stein, con le scene di Ferdinand Woegerbauer, i costumi di Nanà Cecchi e le luci di Joachim Barth, dimenticare le opulente messe in scena che hanno caratterizzato le rappresentazioni del capolavoro verdiano alla Scala fin dai primi anni Sessanta. Chi si recasse a questa Aida con il desiderio di appagare almeno in parte il desiderio di un viaggio turistico nell’Egitto monumentale rimarrebbe assai deluso, dato che in scena non si vede manco una di quelle statuette finte di alabastro che ti vengono vendute a forza durante le escursioni più tradizionali. All’horror vacui di Zeffirelli, alla affascinante rivisitazione archeologica di Ronconi-Pagano, Stein e Woegerbauer sostituiscono scenari del tutto minimalisti dove è solamente il disegno di un portale a rammentarci un elemento di architettura egizia che possa indicare l’ambientazione nel Palazzo de Re a Menfi.
Almeno dal punto di vista dell’impianto scenico, degli spunti interpretativi e della concertazione di Mehta lo spettacolo prosegue peraltro in maniera sempre più convincente regalando momenti di notevole bellezza soprattutto grazie ai bellissimi effetti di luce pensati da Joachim Barth
Il colpo d’occhio alla prima alzata di sipario, un incipit lento e non proprio memorabile di Mehta, la presenza rispettabile fin che si vuole ma francamente poco sostenibile del Ramfis di Matti Salminen e la comparsa del poco attraente Fabio Sartori ci fanno temere il peggio, anche ammettendo che il giudizio iniziale possa affidarsi solamente a un improduttivo confronto con il passato. Almeno dal punto di vista dell’impianto scenico, degli spunti interpretativi e della concertazione di Mehta lo spettacolo prosegue peraltro in maniera sempre più convincente regalando momenti di notevole bellezza soprattutto grazie ai bellissimi effetti di luce pensati da Joachim Barth, che ad esempio contrasta i colori caldi assegnati agli appartamenti di Amneris grazie a un azzurro intenso che si proietta sulle mura del palazzo. E lo stesso Mehta procede attraverso una narrazione che non lascia spazio ad eccessi, soprattutto per i trionfalismi del second’atto, ma anche nello svilupparsi della tragedia negli atti successivi, dove la scena del giudizio viene ricreata con pacata solennità. Mehta illustra gli eventi facendo soprattutto leva su una precisione di dettaglio negli interventi strumentali, con una ricchezza di particolari raramente udita in teatro, e non si lascia andare a forzature di tradizione deludendo talvolta le aspettative di un pubblico che si attendeva la solita Aida bandistica.
Le scelte di Stein non ci sembrano significative nonostante la presenza di alcuni dettagli inediti (come il presunto suicidio di Amneris, che si svena appoggiandosi alla fatal pietra che occlude la prigione di Radames e Aida sotto le volte del tempio di Vulcano). L’omissione di gran parte delle danze nel second’atto di questa Aida sono del resto sufficienti per avanzare critiche alla realizzazione complessiva del titolo. Anche i costumi di Nanà Cecchi possono provocare reazioni contrastanti: belli e variopinti quelli degli Etiopi, ma i sacerdoti in abito da Domenicano con l’elmetto che sembra uscito da un serial di fantascienza e i costumi da Papageno dei negretti danzanti potevano forse essere evitati. Lo stesso dicasi per l’abbondanza di vessilli extra-large tipo Palio di Siena, uno dei quali viene sbandierato impropriamente dal sempre più impacciato Radames e un lembo va persino a sfiorare la testa degli orchestrali in buca. Abituati da sempre a un Messaggero che giunge trafelato e coperto di stracci insanguinati, quello attuale, tutto azzimato, ci sembra appena uscito da una tranquilla sagra di paese in costume.
E ancora per quanto riguarda il cast vocale si ondeggia tra l’eccellenza e la sufficienza. Protagonista assoluta è stata l’Amneris della Rachvelishvili, voce piena, corposa e attrice che oltretutto si muove perfettamente a proprio agio tra Faraone, sacerdoti e il goffo amato: la figura snella della figlia del Re, paragonata a quella di Radames rende comunque poco credibile uno struggimento amoroso così caparbio. Sartori ha indubbiamente tutte le caratteristiche per delineare la figura vocalmente assai impegnativa di un condottiero vittorioso, meno quella di una amante sincero e appassionato, e se si vuole a tutti i costi portare avanti la tradizione del tenore italiano ben messo, che canta invariabilmente in forte dall’inizio alla fine che si continui pure così, anche senza diminuendi nella conclusione della romanza d’entrata (Pavarotti docebat) sostituiti da un suono fisso e corto. Spaventata, addirittura piangente per l’emozione era l’Aida di Kristin Lewis, affabile, tenera, del tutto sottomessa alla prorompente figura della rivale, con qualche problema non indifferente nel volume di suono soprattutto nel registro acuto e con una dizione non esente da critiche. Padre combattivo della stessa era il bravo George Gagnidze, mentre non più che decoroso era il Re di Carlo Colombara. Ottimo come sempre il coro diretto da Casoni.