Al Lingotto di Torino, con il solista Julian Rachlin, pagine di Čajkovskij, Rachmaninov, Stravinskj
di Attilio Piovano foto Pasquale Juzzolino
PRENDETE UNA DELLE ORCHESTRE più blasonate – e antiche – del mondo (una di quelle che in una verosimile, e pur sempre ardua ‘classifica’ ragionevolmente collochereste tra le prime dieci su scala internazionale) e si tratta della lipsiense Gewandhausorchester; aggiungetevi un solista di primissima grandezza, con una tecnica a dir poco strepitosa, una precisione di intonazione che rasenta la perfezione assoluta, il violinista Julian Rachlin, lituano classe 1974; un direttore del calibro e della cultura di Riccardo Chailly, a sua volta una delle bacchette più apprezzate nel mondo; un programma tutto sul versante russo di sicura presa, una sala dall’acustica impagabile, quella del Lingotto di Torino; dire che in questi casi il successo è assicurato pare quasi un’ovvietà.
Così è stato la sera di domenica 15 febbraio, per la stagione di Lingotto Musica. Sala gremitissima e lunghi interminabili applausi al termine dell’impervio Concerto op. 35 di Čajkovskij. Chailly ha sbrigliato l’orchestra (dalle superlative prime parti) nei passi più sfolgoranti, ottenendo incandescenze indicibili e poi per contro sonorità quasi cameristiche, laddove il solista si libra come sulla corda, affrontando i passi di bravura e mantenendo il pubblico col fiato sospeso. Orchestra dagli ottoni nitidi e precisi (quei ritmi di marcia con le saettanti terzine ribattute), archi ambrati e poderosi, legni pulitissimi, una precisione ritmica assoluta. Rachlin, si diceva, rasenta la perfezione quanto a precisione tecnica (e lo si è capito subito, ben prima della protratta e superba cadenza che pochi eseguono con tale bravura), non solo, possiede un magnetismo notevole, un suono di grande bellezza e se talora il suo strumento sprigiona qualche asprezza, mai viene meno la tensione.
Orchestra dagli ottoni nitidi e precisi (quei ritmi di marcia con le saettanti terzine ribattute), archi ambrati e poderosi, legni pulitissimi, una precisione ritmica assoluta. Rachlin, si diceva, rasenta la perfezione quanto a precisione tecnica (e lo si è capito subito, ben prima della protratta e superba cadenza che pochi eseguono con tale bravura), non solo, possiede un magnetismo notevole, un suono di grande bellezza e se talora il suo strumento sprigiona qualche asprezza, mai viene meno la tensione. L’enorme appeal di tale interpretazione ha raggiunto il culmine nella coda del primo tempo. Poi le melanconiche e struggenti plaghe della nostalgica Canzonetta, striata di uno spleen segnatamente russo e destinata a sfociare, senza soluzione di continuità, nel rutilante Finale: che Chailly e solista hanno affrontato a velocità supersonica, rendendola pagina al fulmicotone. Non tutto, però, è brillantezza e corsa a briglie sciolte. Ecco allora la magìa di quei passi cantabili, quei momenti di estenuazione e quei tratti popolareschi con le quinte rurali al basso, quei passi dai ritmi che paiono in anticipo su Petrouschka di Stravinskij. Da registrare un’intesa tra solista, direttore e orchestra come raramente è dato percepire. Vere ovazioni a fine performance e (comprensibilmente, dato l’impegno anche fisico di tale pagina) nessun bis dello straordinario violinista.
Poi parziale sorpresa per il pubblico; parziale, perché la Seconda Sinfonia di Rachmaninov non è pagina di così frequente esecuzione. C’è tutto Rachmaninov in tale lavoro: pregi e difetti. I pregi: un’invenzione melodica di qualità, con quei temi che definire cinematografici e iper sentimentali è di sicuro riduttivo ed anche un poco capzioso; un’orchestrazione di primo livello, con certe sortite solistiche di sicura presa e di notevole, immaginifica originalità, mentre tra i difetti occorre registrare una certa verbosità, specie nel primo (pur magnifico) e nell’ultimo dei quattro movimenti, una certa quale – sia permesso – superficialità di fondo; Rachmaninov scrive le sue Sinfonie negli stessi anni di Mahler, e là c’è tutto, ma davvero tutto: la vita e la morte, l’eros e il misticismo, le inquietudini dell’uomo moderno e via elencando. In Rachmaninov ammiri la piacevolezza dei temi, la scorrevolezza, la spumeggiante qualità dell’invenzione, certi tratti cavallereschi, le aitanti fanfare, ma anche echi dell’universo liturgico ortodosso e molto altro ancora, non vi si devono però cercare la profondità, né i tormenti o i turbamenti dell’uomo del Novecento. Lo Scherzo, con le sue atmosfere animatissime, è forse il movimento più fascinoso dell’intera Sinfonia, e Chailly ne ha perfettamente focalizzato l’esprit, così pure nell’interpretazione di lusso di direttore e orchestra si sono potute apprezzare le delizie melodiche dell’Adagio, da ultimo il trionfale e giubilante Finale. Chailly, attento a minimi dettagli, grazie ad una compagine di inarrivabile bravura, ha trasformato la Sinfonia (quasi) in un capolavoro.
Applausi protratti e scroscianti, molte meritate uscite dei primi attori, insomma delle prime parti, festeggiate per le rilevanti emersioni: dal flauto al corno inglese, dal fagotto al clarinetto alle percussioni e un bis, ancora Rachmaninov, il lungo e un po’ dispersivo Vocalize, che ribadisce quella vocazione melodica verso temi di ampio respiro (come nei migliori casi dei superbi Concerti pianistici). Qui il tema ricorda da vicino certi tratti della rimskijana Shéhérazade, e Rachmaninov se lo rigira a lungo tra le mani, incantandosi egli stesso della sua trouvaille melodica, incantando a sua volta il pubblico.