Il recital del pianista russo al Parco della Musica, tra Beethoven e Skrjabin
di Daniela Gangale foto Musacchio&Iannello
È UNA CARATTERISTICA DEI GRANDI INTERPRETI leggere i classici restituendo nuove prospettive e spunti analitici: quella composizione in cui ogni piega sembrava nota improvvisamente si accende di luci nuove, che ne regalano una visione più piena e completa, nuova e diversa. Tutto questo è accaduto sabato scorso nella sala Santa Cecilia del Parco della Musica di Roma, grazie al carisma e all’eccezionale talento di Mikhail Pletnev. Il pianista russo ha scelto per il suo ritorno sulle scene ceciliane, a ben dieci anni dall’ultimo recital, un programma di grandi classici del repertorio pianistico di Otto e Novecento: le Sonate di Beethoven n. 10 op. 14 n. 2 e n. 17 op. 31 n. 2, quest’ultima meglio nota come Tempesta e il ciclo intero dei Ventiquattro preludi di Skrjabin op. 11.
Entrato in scena calmo e composto, dopo essersi seduto lentamente alla tastiera senza segni di tensione ed essersi concentrato un momento nella sala semibuia, Pletnev ha proposto al pubblico con semplicità la sua lettura delle sonate beethoveniane: in questi brani, composti tra gli ultimi anni del XVIII e i primi del XIX secolo, il Romanticismo è iniziato ma non è ancora completamente manifesto e proprio questo sembra averci detto con chiarezza Pletnev. Forte di un suono estremamente caldo, davvero una carezza per gli ascoltatori, questo eccezionale interprete ha infuso ai temi beethoveniani la lucidità illuministica di teoremi matematici, di assiomi filosofici, realizzando una lettura di estrema chiarezza ma al tempo stesso di grande intimismo. Tratti questi che sono risultati ancora più evidenti nella successiva Tempesta, governata da misura e rigore, davvero perfetta, le cui scelte nel tocco e nei tempi sono risultate assai realistiche rispetto al contesto storico della composizione ed estremamente comunicative, coniugando “Ragione e sentimento” come avrebbe detto Jane Austen (e non a caso il suo capolavoro veniva scritto proprio in quegli anni).
Il suono di velluto, caldo e avvolgente, proprio del pianista russo, è stato protagonista anche nella seconda parte del concerto, completamente dedicata ai Preludi op. 11 di Skrjabin. Scevro da compiacimenti tardoromantici Pletnev si è addentrato da maestro nel complesso tessuto dei Preludi, che emotivamente esplorano quelle regioni in bilico tra sapienza esoterica e follia che tanto affascinavano Skrjabin. La dimensione teosofica in cui un artista così tormentato sembrava essersi in parte acquietato, almeno a dire dai pochi frammenti autobiografici che il compositore russo ci ha lasciato, è stata ben richiamata dalle qualità meditative dell’interpretazione di Pletnev che non è caduto nemmeno per un momento nell’esibizionismo tecnico, non accentuando gli aspetti virtuosistici e funambolici di questi brani a tratti davvero ostici, avanzando invece con leggerezza nel buio scriabiniano e donando ai rari momenti di apertura una luce e un respiro da vertigine.
Il pubblico che purtroppo non riempiva completamente la sala è riuscito a strappare un solo bis all’interprete, che ha scelto il Notturno op.27 n.2 in re bemolle maggiore di Chopin per concludere il recital.