Al Comunale va in scena con successo di pubblico nella Stagione di balletto un dittico composto dal capolavoro novecentesco, con la coreografia di Virgilio Sieni, e il il Preludio di Daniele Roccato, sul quale si concentra questa impressione
di Giampiero Cane foto © Rocco Casaluci
È ANDATO IN SCENA al Comunale di Bologna uno spettacolo di danza del coreografo Virgilio Sieni, intitolato Le Sacre. Ha avuto un ottimo successo di partecipazione e di accoglienza. Alla fine applausi calorosissimi, ma di quel tipo per cui cessano dopo un paio di chiamate a proscenio, per non riaccendersi affatto. Non è una questione di merito o di valore, ma, diciamo, del formarsi più o meno spontaneo di una claque che, sovreccitata da effetti mirabili, ci mette poi poco tempo a sgonfiarsi.
Si ha l’impressione che quanto scritto suggerisca che Le Sacre fosse un bolla o qualcosa di simile. Non è così, ma al Comunale avvengono strane cose sulle quali riflettere: quando vanno in scena prodotti pienamente congruenti con quella che è la ragion pratica per cui questo teatro esiste, se non mette in scena degli spettacoli di solida routine, di repertorio affermato dalle abitudini, la partecipazione non tanto rischia, ma sa di essere del tutto sotto tono (com’è accaduto per la Ladi Macbeth di Šostakovič e in altre occasioni) mentre esso (il Comunale) trova un pubblico occasionale se produce qualcosa che non tanto è al di fuori del repertorio, ma proprio al di fuori del genere.
Quel che è chiamato balletto, cioè lo spettacolo di una coreografia, di un’azione danzata, ha pochissimo a che fare con l’opera, anche se è appieno nel teatro, e, salvo qualcosa che può essere discusso, quasi niente con la musica. Il quasi niente significa che mentre il balletto ornamentale del Grand opéra, anche culturalmente importato, serve alla musica, o ritiene di farlo senza avanzare pretese, la coreografia d’autore la tratta, fosse anche quella dello scandaloso Le Sacre du printemps, come uno strumento, un’occasione per costruirvi sopra uno spettacolo che non riguarda necessariamente la musica, ma quel che vi pare di ritrovarvi tra il romanzesco, il ritmico, il plastico e lo spaziale.
È ovvio che se ciò avviene è bene che avvenga: intanto perché viviamo nel migliore dei mondi possibili (chi ne abbia uno migliore da proporre si faccia avanti: benvenuto Hitler), inoltre perché la fedeltà è di competenza della benemerita, nei secoli, e noi non ne sappiamo nulla. Anzi, dopo Popper sappiamo ormai che si procede solo individuando le falle, gli errori. Questo riguarda però la teoria della conoscenza, per entrare nella quale non sapremmo proprio come si possa usare lo strumento degli spettacoli / delle arti.
La serata al Comunale era divisa in due parti: apriva un Preludio, scritto ed eseguito da Daniele Roccato col suo contrabbasso, cui seguiva la danza costruita sui tempi e le figure dello Stravinskij del Printemps che allora fece tanto scalpore e tanto contrasto creò in sala che per capire un po’ di che musica si trattasse. Malipiero fu costretto a tornare alla replica, ché alla première, a quanto racconta, era impossibile capirci qualcosa.
Qui, oggi, è tutto differente: la coreografia governa ritmi, intensità e tutto di cui al pubblico sembra interessare assai poco. È a torto?
Visto che la ragion pratica dei teatri che fan musica sinfonica, lirica o tritenorile con quel che segue non è scientifica, e visto che il pratico non sapremmo dove trovarlo se non nel botteghino, la risposta pare ovvia. Essa sarebbe rivolta a una sorta di interrogativo oscuro, nebuloso, che comunque ci rimanderebbe al che cos’è di quel Socrate cui Atene, la grande Atene dico del V a.C. dico, non la miserabile Roma di allora e d’oggi servì la grazia del veleno per andarsene da questo mondo di…(fate voi). Daniele Roccato ha dato il nome funzionale di Preludio a un pezzo che non prelude a niente. In confronto al classico stravinskiano ha il vantaggio che lo maneggia lui, come gli pare, o come ha concordato in qualche modo che vada condotto. Personalmente non sapremmo a quali fini perché non vedo un’integrazione progettuale tra questa pagina e quella di Stravinskij. Non riteniamo però che la contiguità e la continuità debbano andare assieme o come si dice di pari passo. Non riteniamo che l’assunzione dell’ottima qualità della musica del contrabbassista valga una benché minima svalutazione di quella di Igor, ma dico che quest’ultima se fosse stata suonata in occasione “sinfonica” così come ieri sera lo è stata in spettacolo coreutico giustamente non sarebbe stata accettata, se così fosse avvenuto.
Roccato scrive (e suona) una musica che all’inizio sembra un incontro, affatto possibile tra la lezione di Bach e quella di Reich. Ma quel che è diventato san Johannes Bach fu un musicista che risultò noioso fin ai suoi figli, aveva un chiaro retrovisore che gli parlava di Vivaldi e, bruciati da Roma e Venezia i sogni di libertà, egli Giovanni Sebastiano aveva messo insieme una partita doppia, tripla e sestupla di un qualche sorta di genialità che si chiamava musica, ma che già ai suoi figli non importava più affatto. Dopo che i romantici (che genere è?) avevano registrato che l’ordine e le connessioni erano state sconvolte nella reciprocità e verso l’esterno, quel monumento fu a lungo offuscato. Che risorga oggi non è un problema, ma dopo il gioco Bach-Reich, Roccato fa partire una contemplazione che diremmo quale un rinascimentale potrebbe oggi offrirci di passaggio per andare poi a guatare un mondo che acriticamente è un po’ il mistico alla Pärt. Salva Roccato, il fatto che nulla fa sospettare che lui ci creda.
Ci sono cose che sono assai complesse da discutere, se si vuole: il minimalismo, inteso come ripetitivismo, può esserlo anche per dimensione. A questo punto vi entrerebbe un Previati per esempio, con quel che si vede nei suoi paesaggi prealpini. In musica sembra si tratti di figure e di colpi d’arco o tagli ritmici. Se lo è, questa è una casistica che non interessa affatto Daniele Roccato. Non c’è un effetto definitivo cui tenda, ma un punto interrogativo che speriamo insista a cancellare con un colpo d’arco.