La pianista Satoko Inoue ha proposto nel Dipartimento di musica e arte della Nihon University pagine del compositore statunitense: Triadic Memories e il ciclo Piano Pieces
di Luciana Galliano
AH, TOKYO! OGNI SETTIMANA più concerti di musica contemporanea, le platee piene. Dove c’è educazione musicale si vede. Venerdì 26 febbraio il compositore Hiroyui Itoh ha proposto una maratona di musica dal vivo o in video in cui l’esecuzione di brani famosi – Nancarrow, Satie, Cage, Yuasa – accanto a brani di compositori giapponesi anche relativamente giovani era accompagnata dalla proiezione di immagini, un progetto elaborato all’interno dei dipartimenti di musica e arte della Nihon University. Un bellissimo evento, un successo. Domenica sera, nella stessa sala, Satoko Inoue ha proposto il suo secondo recital dedicato a Morton Feldman, concludendo una frequentazione e un lavoro concretizzatosi anche in un cd (ALM Records). La sala piena, l’atmosfera vagamente iniziatica che accompagna quasi sempre un concerto monografico dedicato a Feldman, l’attesa per il mitico Triadic Memories la cui esecuzione può durare ore. L’esecuzione data da Inoue di Triadic ha superato i 60 minuti. Nella prima parte del concerto la pianista ha eseguito i diversi Piano Piece in successione rigorosamente cronologica, ed è stata una buona scelta, un po’ didattica ma efficace.
Si è così iniziato con Piano Piece 1952, contemporaneo al pezzo silenzioso di Cage 4’ 33’’, un brano che oppone alla ovvia trasparenza del silenzio proposto da Cage una trasparenza più conclusa ed emotiva, interiore e non esteriore a quanto viene prescritto all’interprete di proporre a chi ascolta. La purezza dei suoni indicati lenti e quiet, che si susseguono senza movimento dinamico, le note prescritte in eguale ritmo ma puntate e come libere sulla partitura senza segnatura di battute, tutto questo lascia all’interprete una sorta di libertà di respiro che può animare un percorso altrimenti implacabile. Sostanzialmente lo stesso accade nel Piano Piece 1955, più breve e direi lirico, mentre nei due brani Piano Piece 1956A e Piano Piece 1956B entrano rispettivamente dei ff e delle armonie vaganti, delle differenze dinamiche, come fosse un’espansione di quel mistero intrinseco al materiale che Feldman oppone all’«interesse personale del compositore per il proprio mestiere».
In questo senso l’interpretazione di Inoue è impeccabile: niente colora la tessitura, tutto accade impersonalmente come se i suoni venissero in vita da sé. Purtroppo la secchezza dell’acustica – per altro ottima – della sala non aiutava il riverbero degli armonici, importante e delicatamente intrinseco al gioco di note tenute e di pedale. Questa interpretazione perfetta e necessaria sembra più consona alla sensazione di vastità di un brano come Piano Piece 1964, i cui passaggi metrici e non metrici, abbellimenti, silenzi, moti e figure si succedono lasciando presentire l’interesse per la tessitura fitta e “reticolare” dei lunghi brani futuri. Alcuni contrasti – come tagli sulla tela, secondo una metafora pittorica cara al compositore – risultano così più impressivi. Meno efficace è tanta precisione per brani come Piano Piece (to Phliip Guston) del 1963, dedicato all’intimo e rispettatissimo amico pittore, un brano che riempie di suoni la linearità e grazia dei brani precedenti e che mi pare potrebbe procedere con più investimento espressivo da parte dell’interprete, anche per evidenziare le differenze di tocco su cui lavora Feldman – ammesso che lo strumento pianoforte, rispetto ad esempio alle possibilità degli archi, non aiuta.
Lo stesso potrebbe valere per l’impegnativo Triadic Memories (1981); Feldman estrae tutto il brano da un modulo di due battute, l’intera partitura è indicata sino a ppppp, immersa nella risonanza del mezzo pedale. Né nel ritmo né nelle armonie (basate su intervalli “neutri” come seconda, quarta e settima) c’è una qualsiasi finalità: tutte le modifiche avvengono quasi impercettibilmente attraverso ripetizioni appena variate. L’incredibile precisione di Inoue nei progressivi “scivolamenti” fra le due mani nell’esposizione di frasi che ritornano, e la precisa fisionomia di questi ritorni, e in generale la stretta consequenzialità dell’esecuzione forse toglie leggerezza ad un brano che, come tanti “brani lunghi” dell’ultima produzione di Feldman, vivrebbe anche di aria e colore, ma vi aggiunge un peso formale di grande interesse, forse raggiunto anche grazie al limite di poco più di un’ora dato all’esecuzione. Pochi suoni pensatissimi, un virtuosismo puramente concettuale e alla fine Inoue, sfinita, non ha neppure concesso un bis alla platea applaudente!
bell’articolo: grazie !! Eh si, i fatti dimostrano che se si investe in modo intelligente sulla cultura musicale, e non sul conformismo, la spettacolarizzazione, il divismo (più o meno becero) si fa musica e cultura sul serio e la risposta del pubblico c’é. Un bel testo breve su Piano Piece 1952 (e altri testi su Feldman) di Christian Wolff si legge qui : http://www.cnvill.net/mfwolff2.htm che terrina così
“The sound is simply present. It doesn’t look back. That’s what makes this music utopian.”