All’Auditorium Parco della Musica un ‘meta-concerto’, la riproposizione di quella che poteva essere una delle tipiche serate in cui Schubert e i suoi amici si incontravano
di Daniele Mastrangelo
SI PUÒ, ANCHE SOLO CON L’IMMAGINAZIONE, trasformare la particolare atmosfera di una sala così moderna come la Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, in un salotto borghese della Vienna degli anni venti del secolo decimonono? E noi ascoltatori possiamo per una volta dismettere i panni di adepti della musica assoluta per ritrovare l’umanità e il piacere divertito, talvolta effimero, della musica d’occasione?
Sono questi alcuni degli interrogativi che ci ha lasciato il concerto impaginato da Alexander Lonquich, uno dei maggiori pianisti oggi attivi: un musicista completo che non si limita all’attività solistica, ma che invece dà tanto spazio alla musica da camera ed è poi anche concertatore, direttore d’orchestra, e talvolta, in rari fortunati casi, appassionato e acuto divulgatore. Le domande che ci poniamo nascono innanzitutto dalla curiosità culturale, dal coraggio dell’interprete che avrebbe potuto scegliere una qualche rassegna di classici della letteratura pianistica pescando dal suo vastissimo repertorio e che invece ha composto un programma dove il tutto è più importante della parte, in cui il contesto comune che circondava le opere proposte è stato determinante per capire le singole composizioni.
Si può dire, ricorrendo ad una espressione forse un po’ artificiosa, che quello a cui abbiamo assistito, sia stato non tanto un ‘concerto’, ma un ‘meta-concerto’, ovvero la riproposizione di quella che poteva essere una delle tipiche serate in cui Schubert e i suoi amici si incontravano e che la storia ci ha tramandato sotto il nome di «schubertiadi». Quest’ultime dobbiamo immaginarle com’erano: incontri in cui giovani ventenni dedicavano il loro stare insieme alla musica, ma anche al cibo o ad altri piaceri. Allora non c’era un vero e proprio pubblico come possiamo intenderlo noi oggi, ma qualcosa di molto più attivo: dilettanti e musicisti professionisti si univano per suonare della Hausmusik (dove le musiche erano spesso pensate per una fruizione privata e non per la pubblicazione), la musica da ballo veniva ballata e non semplicemente ascoltata, i poeti veri o presunti inviavano i propri componimenti al compositore il quale pochi giorni dopo o persino estemporaneamente poteva ricavarne un Lied per essere intonato magari da un solista o da un coro di amabili buontemponi. Si può dire che tutti gli invitati, allo stesso tempo partecipavano alla realizzazione della festa.
Oggi le stesse musiche le ascoltiamo in una sala da concerto dove troppo spesso il silenzio che si vorrebbe come rituale diventa invece un torpore dispersivo e l’abbandono al puro divertimento quasi una vergogna.
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La prima metà del concerto è stata pensata da Lonquich come un insieme unitario (significativa e irrituale la richiesta di non applaudire tra una composizione e l’altra) eppure eterogeneo allo stesso tempo: l’alternanza fra il pianoforte solista e la musica corale realizzava come un pendolare fra la confessione dell’io a sé stesso nell’intimismo raccolto dei primi due Klavierstücke e l’espandersi dell’interiorità verso l’esterno, il ‘fuori’, quest’ultimo inteso come la contemplazione della notte quale luogo di luce e pienezza (Nachthelle per coro maschile, tenore e pianoforte D892) o come luogo degli innamorati che rubano al sonno un breve, furtivo salutarsi (Ständchen per coro femminile, contralto e pianoforte D920). Coerentemente a chiudere si è ascoltato l’ultimo, il terzo dei tre Klavierstücke, perché quello in cui l’immaginazione melanconica del compositore si placa e la musica trova accenti da canto pastorale di gioia.
Dal punto di vista dell’interpretazione si poteva notare come sin dall’attacco del primo Klavierstuck (Allegro assai, nella tonalità di mi bemolle minore) – risalente all’ultima stagione compositiva di Schubert e sospeso come il secondo fra vitalità e contemplazione dell’ignoto – lo slancio messo da Lonquich era come da esecuzione privata, senza dunque eccedere nella cura del dettaglio dinamico e timbrico. Questo stesso slancio ha forse penalizzato la sezione centrale (Andante, in si maggiore) dove alcuni grandi interpreti (Sviatoslav Richter, Maria João Pires) marcano l’improvviso, netto distendersi dell’agogica con un metronomo basso, mentre Lonquich ha scelto la strada di un maggiore understatement, di una sottrazione dell’enfasi, strada più corretta filologicamente (e a controprova vi è la non esecuzione del cosiddetto Secondo episodio – Andantino del primo pezzo, cancellato da Schubert e da molti interpreti reintrodotto con una sostanziale trasformazione di tutta la struttura formale della composizione).
Nella seconda parte, quella più vicina ad una vera e propria schubertiade, il lungo Divertissement à la hongroise (in sol minore per pianoforte a quattro mani D818) con tutti i suoi episodi e tutti i ritornelli accuratamente rispettati è stato eseguito da Lonquich e da Cristina Barbuti con trasporto, ma allo stesso tempo ha rivelato più degli altri brani il segno del tempo e dello spazio che separano noi dal mondo di ieri: l’invenzione schubertiana è vivacissima, ma per essere condivisa richiedeva qualcosa di più dell’ascolto distaccato e immobile.
Ad incastonare il Divertimento all’ungherese altre due opere corali però di ispirazione molto diversa tra loro. La prima, Gott im Ungewitter (per coro misto e pianoforte D985), alternava il ritratto di un dio onnipotente e terribile ad una commossa implorazione di clemenza; la seconda Kantate zur Feier der Genesung der Irene Kiesewetter (per coro e pianoforte a quattro mani D 936) è una breve affettuosa celebrazione della guarigione della dedicataria, con un trascinante finale. Singolare è il fatto che fosse su un testo in italiano (di autore non identificato) e la cosa si giustifica probabilmente se si tiene conto del committente, il consigliere statale Raphael Georg Kiesewetter, noto oggi soprattutto per la sua vasta collezione di musiche antiche e tra queste particolarmente importanti quelle dei polifonisti italiani.
Il concerto nel suo complesso si colloca all’interno degli ormai numerosi importanti esperimenti compiuti da Lonquich per ripensare la trasmissione della musica al pubblico, esperimenti che meritano la massima attenzione perché suggeriscono un diversa disposizione all’ascolto, meno auratica, meno rituale, ma più inquieta e viva.
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Venerdì 10 Aprile 2015
Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Alexander Lonquich, direttore e pianista
Ciro Visco, maestro del coro
Marco Santarelli, tenore solista
Maria Grazia Casini, contralto solista