Il violinista cinese, l’orchestra bavarese e il direttore Zuckermann spaziano dal Classicismo al Romanticismo e dallo strumentale all’operistico attraverso Haydn, Kraus, Paganini e Berwald
di Francesco Lora foto © Felix Broede
A BOLOGNA, LA STAGIONE CONCERTISTICA DI MUSICA INSIEME è la casa di solisti e formazioni da camera, nonché del pubblico che sa godersi la raffinatezza nell’idea anziché nei lustrini. Le eccezioni non tradiscono la vocazione: nel concerto del 13 aprile al Teatro Manzoni, il programma era corposamente sinfonico e disinvoltamente eclettico; eppure, al rispettivo posto si sono ritrovate la minuziosità reservata delle letture, la chiarezza del filo logico che unisce una partitura all’altra e la mostra virtuosistica di un solista di rango.
La conversazione tra i brani è quantomeno a triplo tema. V’è l’esame del progresso stilistico dal Classicismo irrorato di Sturm und Drang al Romanticismo della generazione precedente a Verdi e Wagner: si procede così dalla Sinfonia in Do minore di Joseph Martin Kraus, e da quella in Sol minore Hob. I: 83 (La poule) di Joseph Haydn, al Concerto n. 1 in Re maggiore op. 6 di Niccolò Paganini e all’Ouverture da Estrella de Soria di Franz Adolf Berwald. V’è l’esplorazione di maestri di stile, universali e sedentari come Haydn, accanto a precursori geniali e viaggiatori, come Kraus che fu quasi un emulo di Mozart; per tacere degli ulteriori possibili incroci: Paganini allora e sempre ubiquo e celebre, ovvero Berwald, oggi tanto oscuro agli annali quanto testimone prezioso di un’epoca poco studiata. V’è infine l’osmosi tra i linguaggi della musica strumentale e di quella operistica: se Haydn si limita a evocare la gallina e Kraus tira temperamentose sferzate, il brano di Berwald è sinfonia d’opera senza meno e, soprattutto, in Paganini s’ascolta scambio di temi, linee di canto e sfogo di masse come li si ritrova nei coevi drammi dell’amico Rossini.
La stella della serata è il giovane, rampante, esotico violinista Ning Feng, solista in Paganini: le melodie, ornate ed estese fino all’inverosimile, trovano favolosa esattezza d’articolazione e intonazione; vi si aggiunge un piglio incandescente, a maggior ragione rimarchevole in un esecutore non latino all’anagrafe, e una morbidezza che sembra crescere in rotondità e calore quanto più le note s’innalzino nei cieli del pentagramma. Tenere insieme questo demone dell’archetto e le interpunzioni dell’orchestra dà il suo daffare al direttore Ariel Zuckermann, nel contempo divertito da Paganini e reverente al virtuoso; in Kraus volano invece zampate piene e sulfuree, così come Berwald suona spigliato e poderoso, o Haydn lucidato a puntino di tema in tema e di umore in umore. I meriti sono condivisi con le file dei Münchner Symphoniker: archi unanimi e in primo piano, fiati incisivi e mordenti nel Classicismo ma pronti a ingrassare cordialmente nel passare alla favella romantica.