In scena al Regio il titolo di Bellini in coproduzione con il Maggio Musicale Fiorentino: regìa di Fabio Ceresa, direzione musicale di Michele Mariotti. Nel cast vocale spiccano le prove di Olga Peretyatko e Nicola Ulivieri
di Attilio Piovano foto Ramella&Giannese
AL REGIO DI TORINO non li si rivedeva dal 1996: I Puritani sono riapparsi dunque lo scorso 14 aprile nell’allestimento in coproduzione con il Maggio Musicale Fiorentino e si è trattato di una valida edizione, soprattutto sotto il profilo strettamente musicale. Sul podio la bacchetta di lusso di Michele Mariotti che conosce in maniera oltremodo approfondita l’ultima opera composta da Bellini avendola già diretta con successo più volte, a Bologna come pure a Parigi e New York. E la dirige con passione e accuratezza. In apertura tempi un poco allentati (forse per assecondare Nicola Alaimo nel ruolo di Sir Riccardo Forth, inizialmente un po’ in difficoltà), poi però sono parsi del tutto appropriati. Ottimo e puntualissimo il lavoro di concertazione e assai apprezzato l’aver ammorbidito il più possibile certi baldanzosi e pimpanti ritmi (la cabaletta «Suoni la tromba intrepida» ne è il più celebre esempio) di cui è costellata la partitura belliniana, pur specchio di un’epoca e di un gusto nazional-pre-risorgimentale, diciamo così, che di fatto, in certe altre esecuzioni, finiscono per stridere non poco con l’assunto tragico dell’opera. Opera a cui spetta la palma – ci sia permesso sottolinearlo – di uno dei libretti più brutti in assoluto del repertorio ottocentesco, frutto della non eccelsa penna di Carlo Pepoli, con espressioni terribili, se non in qualche caso del tutto risibili; al riguardo occorrerebbe citare un terzo almeno degli insopportabili versi di cui si sostanzia il libretto per testimoniarne l’irrimediabile mediocritas, ma evidenti ragioni di spazio lo impediscono e una semplice campionatura di due o tre versi risulterebbe del tutto inutile.
Ciò detto Mariotti ha potuto contare su un’orchestra in buona forma ed iper attiva: reduce (nella sua formulazione di Filarmonica del Teatro Regio) dall’applaudita mini tournée ad Aix-en-Provence di due giorni prima, con la direzione di Noseda per un applaudito concerto (solista Kathia Buniatishvili) incentrato sul Secondo Concerto di Rachmaninov e la mitica Shéhérazade del mago Rimskij, concerto poi replicato con vasto consenso a Torino la sera innanzi. Nei Puritani Mariotti ha ottenuto una buona resa, sia quanto a fraseggi, sia quanto a varietà di colori, ponendo in luce la singolare ricchezza specie armonica (ma anche timbrica) della partitura, grazie all’impegno complessivo della compagine e delle sue prime parti (pressoché in tutte le sezioni, salvo qualche occasionale défaillance).
Il cast: molto valida la Elvira del soprano Olga Peretyatko – che di Mariotti è la consorte – al debutto al Regio di Torino; è una parte impervia la sua e nonostante qualche minima incertezza e qualche asprezza nella fase iniziale dell’opera la voce della Peretyatko è poi andata riscaldandosi e il soprano, ben convincente anche sotto il profilo della recitazione, un po’ meno quanto a dizione, ha regalato notevoli emozioni convincendo appieno nei molti passi dell’opera che le sono riservati (da «Son vergin vezzosa» a «Qui la sua voce soave»), dando credibilità alla follia di cui ella è vittima entro un plot romanzesco–guerriero, ma di fatto incentrato sul contrasto dei sentimenti e su un colore per lo più elegiaco. Buono ancorché non perfetto, Dmitry Korchak nella parte del cavaliere Lord Arturo Talbo. Il tenore ha sfoderato una vocalità di tutto rispetto, pur con qualche piccolo cedimento qua e là, sensibilità e intelligenza interpretative di fatto apprezzabili. Del baritono Nicola Alaimo nel ruolo di Riccardo già si è accennato, l’elemento forse più debole dell’intero cast, laddove ha invece primeggiato incontrastato il basso Nicola Ulivieri nei panni di Giorgio Valton zio di Elvira, assai apprezzato anche per la sua ottima e prestante presenza scenica, convincente sotto ogni profilo. Il mezzosoprano Samantha Korbey ha sbozzato una Enrichetta un po’ scialba soprattutto in ragione di una voce piccola, spesso sovrastata dall’orchestra; a posto nel suo ruolo il basso Fabrizio Beggi (Lord Gualtiero Valton padre di Elvira) e bene anche il Sir Bruno Roberton del comprimario Saverio Fiore. Un plauso al coro ottimamente istruito, come sempre da Claudio Fenoglio, cui peraltro spetta una parte impegnativa (le arie con Arturo «A te, o cara, amor talora» e con Giorgio «Cinta di rose»).
Ed ora il versante ‘visivo’ dello spettacolo. La poco incisiva regìa di Fabio Ceresa è parsa troppo lambiccata: la dichiarata intenzione era di astrarre dal contesto sia storico sia temporale della vicenda, trasportandola (chissà perché) in un ‘fuori dal tempo’ eccessivamente straniante. Ceresa ha comunque saputo dar rilievo alla pazzia di Elvira, presente ma contemporaneamente assente nello svolgimento della vicenda che ella stessa vive come ‘lunga tre secoli’ (metafora presa fin troppo sul serio dal regista) e che nella realtà si svolge in tre mesi. Quella stessa pazzia così cara ai temi del Romanticismo che accomuna questa eroina, ad esempio, alla donizettiana Lucia, fatti salvi i dovuti distinguo. Tra i pochi guizzi della regìa l’idea dei mimi (gli ottimi Movers Fattoria Vittadini) che si muovono al rallentatore con suggestivo impatto.
Interessanti le pur cupe e un po’ opprimenti scene di Tiziano Santi, coerenti con la regìa, che hanno realizzato una sorta di interno di architettura gotica religiosa: nel secondo e terzo tempo si è scoperchiata, lasciando il fondale aperto con validi giochi di luci sulle nervature (luci di Marco Filibeck). Ma perché far emergere i personaggi dalle lastre tombali come zombie? Un tocco di horror francamente eccessivo che finiva col risultare discutibile e sortire effetti quasi ridicoli anziché aggiungere un quid di tragicità (come prevedibilmente nelle intenzioni di chi ha firmato scene e regia). I costumi di Giuseppe Palella, giocati sulle variazioni dal bruno al rosso scuro al fucsia, giù giù sino ai toni del (vituperato ed aborrito) viola di scaramantica pregnanza, sono sembrati validi e slegati da vincoli temporali, ancorché con rimandi medievaleggianti. Nel complesso il tutto risultava comunque troppo scuro (troppi veli irrimediabilmente neri anche laddove si parla di nozze, troppe gramaglie eccessivamente allusive al lutto, santo cielo) con le figure quasi esclusivamente in ombra. Le cose sono cambiate solo allo schiarirsi finale, a conclusione dell’opera, come una ventata d’aria pura (ma era ormai troppo tardi) per sottolineare la felice svolta della vicenda stessa (giunta però un po’ in modo casuale, come se la notizia dell’amnistia venisse notificata con tono asettico e ragionieristico). Valida la scena dell’uragano con le figure in controluce parse molto suggestive.
Il pubblico ha mostrato di apprezzare, la sera della prima, uno spettacolo che prevede in complesso sette repliche con un secondo cast di tutto rispetto (Desirée Rancatore, Enea Scala, Mirco Palazzi tra i ruoli principali).