Un percorso attraverso Monteverdi, Händel, Gluck e Schubert indaga la Grecia classica. Dopo un’Iphigénie en Tauride compromessa dalla regìa, il volo libero riprende con Semele
di Francesco Lora
«SO RUF ICH ALLE GÖTTER»: il motto del Festival di Pentecoste di Salisburgo 2015, ispirato a un verso dall’Iphigenie auf Tauris di Goethe (1787), convoca gli dèi olimpici nelle locandine del suo programma. Per limitarsi agli spettacoli musicali ed escludendo le iniziative collaterali, vi si trovano una tragédie lyrique in forma scenica come l’Iphigénie en Tauride di Gluck (1779), l’oratorio profano Semele di Händel (1743) e concerti di musica vocale dedicati ad aspetti della divinità. Secondo il suo partito, il melomane può individuare anche tra gli interpreti gli dèi veri o quelli fasulli, e deve comunque chinare il capo a chi muove le ruote celesti della macchina festivaliera: Cecilia Bartoli, direttore artistico della rassegna e primadonna in capo delle serate di spicco. Pentecoste di temporali, a Salisburgo come in Italia, e poche divagazioni a spasso per la città austriaca: si bada alla musica e se ne va a parlare.
IPHIGÉNIE EN TAURIDE
Le vicende di Ifigenia han dato luogo a miti e materia a tragedie, dall’età classica antica fino alla scorsa età moderna. Rappresentano un’eredità culturale tipica, perfetta, sempreverde, dove si ammonisce dalla tracotanza e dove si entra nel teatro dei ruoli: la collocazione tra forze uguali ma di segno opposto, che condurrebbero l’uomo ugualmente all’errore; la guerra tra gruppi sociali di diverso territorio o la gerarchia tra chi è principe e chi è suddito, tra chi è consacrato e chi è profano, tra chi in cuor suo tiene ora l’una e ora l’altra identità. Nel corso della storia cambia il pensiero, ma l’insegnamento, per esempio o per catarsi, rimane il medesimo fino all’età contemporanea (esclusa?): formare il cittadino affinché sappia disciplinare sé stesso e discernere nel mondo. È questo il caso dell’Iphigénie en Tauride di Gluck, il capolavoro ove illuministicamente s’invocano le ragioni della natura, e ove la divinità assente tiene tuttavia davvero in pugno le sorti dell’azione, risultando non tanto un deus ex machina calato a rendere più pomposo il finale, quanto un personaggio cieco, muto e sordo fino al colmo della sopportazione umana.
Detto questo, poco o nulla quadra nell’allestimento scenico inaugurato nella Haus für Mozart il 22 e 25 maggio, e destinato alla ripresa nel festival estivo tra il 19 e il 28 agosto. Stupisce che a firmarlo siano i registi Moshe Leiser e Patrice Caurier, lo scenografo Christian Fenouillat e il costumista Agostino Cavalca, vale a dire gli stessi autori di memorabili spettacoli salisburghesi e bartoliani. Si sa che, nel loro messaggio assoluto, i lavori teatrali basati sui miti si prestano più degli altri alla trasposizione spazio-temporale, la quale è dunque benvenuta purché integrata in un discorso che rinnovi la forza dell’opera. Ma il mondo rappresentato da Leiser e Caurier è una società uniforme e incrudelita, senza opposizione tra gruppi e violenta al proprio interno; la disperazione prende il posto della divinità, le sacerdotesse carismatiche divengono donne esasperate, il dibattito interiore è paralizzato dal trauma che toglie valore alla vita e l’appiattisce nell’anticamera del nulla; è la fotografia di un disastroso stato di fatto, ove il personaggio ha perso la sua funzione e le sue relazioni d’origine. Denaturato, il mito di Ifigenia non ha più alcunché da insegnare.
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Fa male quando un’idea registica sterminatrice guadagna spazio a oltranza sul testo e sul lavoro musicale: per paradosso, ciò è reso possibile proprio là dove musicisti abili offrano la loro competenza a nuove idee, ricevendone però in cambio l’amputazione delle ali. Diego Fasolis dirige la sua orchestra dei Barocchisti e il Coro della Radiotelevisione Svizzera: la lettura è di alto specialismo e vigore teatrale, dimostrato tuttavia più sul terreno delle galanterie cantabili e ornamentate – un esempio tra tutti: l’aria di Pylade nell’atto II – che su quello del barbarico impeto degli Sciti; qui la musica asseconda a tal punto il nudo iperrealismo registico da ammettere suoni fin troppo indeterminati nel corpo timbrico e nell’intonazione, o da accettare l’ignominioso taglio interno del divertissement finale dell’atto I, ossia proprio il passo che dovrebbe rappresentare in ampia scala il carattere degli Sciti. E spiace ancora che nel finale dell’atto II sia ripescata una marcia d’appendice in luogo dello struggente «Contemplez ces tristes apprêts», là ove Iphigénie dovrebbe riprendere il cerimoniale rango di sacerdotessa dopo lo sfogo intimo di «Ô malheureuse Iphigénie!».
La regìa, dunque, vieta alla musica la logica delle sue strutture e la varietà del suo linguaggio. Per troppa fede ne fa le spese la Bartoli in persona, esordiente nella parte eponima gluckiana nonché nel Classicismo francese: proprio lei che ha reinsegnato al mondo come si animi un recitativo in ogni suono e grafema, a costo di un manierismo sopraffino e incontornabile, e come le agilità più sgranate debbano associarsi allo scavo della parola e degli affetti, proprio lei – si diceva – è qui costretta a un granitico declamato a mascelle serrate, dove nessun cedimento è permesso alla donna e dove nessun involo è permesso alla virtuosa e all’attrice. Forse nessun’altra reggerebbe con più caparbietà allo sforzo di astenersi dalle proprie specialità e di concentrarsi tutta nel disperato e vano eroismo di un’anima svuotata: ma il trascendentale debutto di Anna Caterina Antonacci nella stessa parte risale all’altro ieri, e rimane spiazzante che alla Bartoli siano negate le armi di un’interpretazione alternativa, la quali entri nel discorso musicale anziché porsi al suo fianco e in suo spregio.
Un solo cantante della compagnia riesce ad aggirare le insidie della regìa, malgrado questa gli imponga persino l’esibizione scenica del nudo integrale: Christopher Maltman. Anche a nervi tesi egli riesce a dominare con pieno smalto l’acutissima tessitura di Oreste; anche nel più desolante contorno e nella massima asciuttezza retorica, egli riesce a infondere sfumature degne dell’arte del canto, anziché cedere a inasprimenti più adatti a un corso di sopravvivenza. Gli fanno ala colleghi funzionali: Topi Lehtipuu, già da tempo avvezzo alla parte di Pylade ma a essa sempre sottodimensionato per scarsezza di risorse naturali e tecniche; Michael Kraus, basso di modi ruvidi e manifestamente a disagio nell’elevata tessitura di Thoas; e Rebeca Olvera, delicata Diane che la regìa banalizza nelle forme di un’astratta soubrette dorata: l’impitoyable déesse sempre invocata e noncurante fin sulla soglia della catastrofe è così svilita a fantoccio decorativo, tanto più inspiegabile nell’ottica di Leiser e Caurier. Lussi inauditi nel comprimariato, infine, con Lucia Cirillo come Donna greca, Walter Testolin come Ministro e Laura Antonaz tra le Sacerdotesse.
SEMELE
Per trovare il rovescio della medaglia basta passare alla serata del 23 maggio, nella stessa Haus für Mozart e con interpreti spesso in comune con l’Iphigénie en Tauride. Si dà la Semele di Händel, opera in stile inglese «after the manner of an oratorio». Il programma salisburghese semplifica promettendo un’opera in forma di concerto; avviene, in realtà, che i cantanti schierati in proscenio e a leggio, con alle spalle orchestra e coro, interagiscano tra loro nel nome di una regìa implicita, spontanea, suggerita non altro che dal testo musicale e dalla loro esperienza talentuosa; avviene che su una semplice fascia di palcoscenico – proprio come avveniva tra Sei e Settecento, davanti a prospettive di quinte e fondali dipinti – essi diano luogo a un’esperienza teatrale completa e tangibile, forti del possesso di un linguaggio precluso a molti eroi del teatro di parola. Perché, per parafrasare la sentenza irriverente del sempre arguto Alfonso Antoniozzi, il regista è come un condom: con, ci si sente più sicuri; senza, ci si diverte di più.
Tutto torna a proprio agio e nobilitato, a partire da Diego Fasolis, dai Barocchisti e dal Coro della Radiotelevisione Svizzera: il suono ritrova timbro e corpo, il fraseggio arguzia e sornioneria. Ci si duole solo per l’abbondanza dei tagli, assommanti a circa mezz’ora di musica su tre scarse, e particolarmente insistita nell’atto I. Protagonista, la Bartoli monta in cattedra per strapotere virtuosistico, recitativo e autoironico, facendo sorridere di gioco teatrale proprio là dove espugna terzine roventi, o eleggendo a strumento concertante lo specchio sul quale intona e varia «Myself I shall adore», forse la più egocentrica e presuntuosa aria di toeletta mai uscita dalla penna di un compositore. Un capolavoro. Intorno a lei tutti danno il meglio, anche quando non specialisti del repertorio händeliano. Birgit Remmert, per esempio, è avvezza anche a Richard Strauss, e si impossessa della parte di Juno solo a costo di declinarla in chiave apertamente comica: eppure l’operazione convince, diverte, mostra coerenza fino all’ultima nota.
Stupisce Charles Workman, tenore ammesso alle più alte collaborazioni (Claudio Abbado compreso, nel Così fan tutte di Ferrara) e ai più onerosi impegni (il Rossini serio della Donna del lago e di Moïse et Pharaon), e sempre risultato inadeguato a tessiture impervie oltre che affetto da una comica cadenza anglicizzante: qui, come Jupiter e Apollo, trova finalmente il terreno d’elezione, provvedendo agilità nitide e voce timbrata più del consueto, e potendosi finalmente esprimere con naturalezza nella lingua madre. Ambrata e garbata la Ino di Liliana Nikiteanu (ma la parte dovrebbe essere affidata alla stessa interprete di quella di Juno: in tal modo, come il compositore aveva previsto, si svela la facilità di trasformazione della dea nella sorella di Semele). Piccante l’Iris di Rebeca Olvera, flemmatico l’Athamas di Andreas Scholl, spassosi il Cadmus e il Somnus di Peter Kálmán, questi ultimi istrionicamente risolti con buona pace di pagine musicali insigni. Per il pubblico, occasione di gioia senza condizioni.
PADRE E FIGLIO, CONTRALTO E CONTROTENORE
Il 24 maggio, musica mattina e pomeriggio: prima nella sala grande del Mozarteum, quindi nella Haus für Mozart. La mattina è il turno di Christoph e Julian Prégardien, padre e figlio, tenori di fama entrambi, impegnati in un programma che sottolinea l’ispirazione mitica dei testi letterari e, nel contempo, il loro rapporto familiare. La prima parte è dedicata a Monteverdi, con pagine dall’Orfeo (1607), dal Concerto (1619) e dal Ritorno d’Ulisse in patria (1641). Emerge la calligrafica aristocrazia di fraseggio di Christoph, improntata al riferimento di Dietrich Fischer-Dieskau e ora ombreggiata da inflessioni baritonaleggianti, in contrasto con la malìa timbrica di Julian, più eclettico di repertorio, più morbido d’emissione, più risonante di volume e più versato nel sostenere tessiture acute. Si nota in entrambi il disagio nella prosodia italiana, tra difetti di pronuncia e approssimazione di riferimenti retorici. Si lamenta la poca cura posta nell’ensemble strumentale che li accompagna e sostiene: a fronte di un basso continuo nutrito oltre il necessario, infatti, Anima Eterna Brugge si presenta con un solo violino di concerto, eliminando le parti mediane come nulla fosse, e alterna indifferentemente il cornetto torto e il cornomuto, strumenti affini e tuttavia storicamente assegnati ad àmbiti ben distinti.
La seconda parte consiste invece in una monografia dedicata a Schubert, attraverso una selezione di Lieder con soggetto classico (D 360, 369, 526, 544, 583, 677, 700, 707, 737) e fino al pezzo d’arte sommo che schiera in campo la voce narrante, il padre, il figlio e la presenza sovrannaturale: Erlkönig (D 328). Nella loro lingua madre, i Prégardien fanno faville di esposizione espressiva e coloristica, presentando i brani ora a voce sola, ora a due voci, ora seguendo l’originale e ora arrangiando liberamente: già lo avevano fatto in Monteverdi con qualche eccessiva disinvoltura, mentre qui sanno conservarsi entro il giusto stile e buon gusto. Prezioso è l’accompagnamento di Jos van Immerseel, seduto a un fortepiano protottocentesco che restituisce i colori cangianti e il moderato volume di certo familiari a Schubert e oggi sopraffatti da meccaniche d’altra insolenza.
Problemi differenti pone sul tappeto il concerto pomeridiano, ove il controtenore Philippe Jaroussky presenta un programma di arie tutte händeliane concertate da Nathalie Stutzmann, il celebre contralto ora passato alla direzione della sua orchestra Orfeo 55. È proprio la signora, a partire dalla sua bacchetta, a imprimere valore all’operazione. Lo fa agganciando tra loro, con accorte relazioni di tonalità, rare arie dal Parnasso in festa, dalla Deidamia, da Aci, Galatea e Polifemo e da Arianna in Creta, nonché movimenti dai concerti delle opp. III e VI. Si ottiene così un flusso costante e ragionato, ricercato e cangiante di musica e affetti, accumulando sul finale lo scroscio degli applausi maturati e mai sfogati. Ma la Stutzmann ha un merito ancor maggiore: dispone di un’orchestra di livello tecnico ordinario, che tuttavia tratta come un’appendice della propria voce; ed ecco che da quelle file ogni strumento respira, canta, duetta con la voce solista quasi fossero di una medesima natura: un incanto concettuale e sinfonico che nessun musicista cresciuto lontano dalle voci – e tale è il caso dei più – potrebbe ideare, animare, rifinire con pari amorevolezza, orgoglio e cognizione di causa.
In questo contesto, Jaroussky riceve un compenso più alto del merito: a dispetto di certa idolatria tributatagli, il suo accento rimane compreso entro la gamma espressiva dell’adolescenziale estatico, senza saper maturare in corposo piglio eroico o in profondo rovello psicologico; l’estensione tollera tessiture sopranili, salvo poi toccare le note estreme tra sfibrati fiotti d’aria che si fan largo tra corde vocali non abbastanza toniche; il repertorio di bravura lo trova ora impegnato al massimo limite, con esiti di certo apprezzabili, ora in affanno e spaventato da qualche semicroma di troppo. Se poi ci si mette il diavolo, avviene che dal podio, scherzosamente, la Stutzmann interagisca con lui in due recitativi, e con lui decida infine di intonare il duetto di Sesto e Cornelia dal Giulio Cesare in Egitto: peggio non potrebbe accadere per svelare come solo nella signora stiano il velluto timbrico, il legato morboso, l’abbellimento pungente, l’inflessione rapinosa, il grave infernale e l’acuto rotondo. Non tutti gli dèi stanno in Olimpo.
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