Ottantacinque anni fa nasceva il pianista e compositore austriaco, scomparso nel 2000. Grande interprete, dopo una fase accademica iniziale ha maturato una personale, trasversale e vivace idea dello stare sul palco e dell’essere interprete, accostando il repertorio tradizionale a materiali musicali di tutte le estrazioni
di Mario Leone foto Sigfried Lauterwasser/DG
«MOLTI CONSIDERANO LA MIA ESISTENZA UNO SCANDALO. È uno scandalo quando qualcuno fa sempre cose che normalmente non andrebbero fatte. Non si studia Mozart o Beethoven per poi suonare al jazz club due ore più tardi. Effettivamente la mia vita è uno scandalo continuo».
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Ginevra, 1946. Un sedicenne imberbe di nome Friedrich Gulda esegue Beethoven con il piglio dell’esecutore consumato e incanta i giurati di uno dei più selettivi concorsi pianistici. Preludio di una carriera dirompente, un talento sconfinato, fin da subito dal tratto deciso, sfolgorante, pertinente, mai banale. A venti anni l’esordio alla Carnegie Hall, in occasione del quale regala al pubblico l’interpretazione di alcune sonate beethoveniane con l’uso parsimonioso del pedale, accentuate linee di basso, grande legato e uso percussivo della tastiera. Interpreterà spesso Beethoven.
Gulda prosegue la grande tradizione tedesca iniziata da Schnabel e Backhaus, ma sceglie di rifiutare la vita di clausura del virtuoso in favore di una carriera nella quale pone la stessa attenzione al jazz e alla musica classica, alla performance, alla composizione e all’improvvisazione
Harold Charles Schonberg
Memorabile un recital a Monaco: in programma le variazioni Diabelli, nella prima parte, seguite dalle sue improvvisazioni tra il jazz e l’esoterico. Il musicologo Sergio Sablich ne scrive così dopo il concerto tedesco: «Uno shock. Il genio di Friedrich Gulda sbriciola il macigno beethoveniano pezzo per pezzo, come se si trattasse di una parodia nella quale tutto – pensieri, sentimenti, stili, metafisica – viene messo allegramente, quasi impudicamente, in discussione».
Un talento tra innovazione ed esaltazione del classico
Ha suonato nei più importanti teatri del mondo. Eppure Friedrich detesta tutto ciò che è accademico, schematico, prestabilito. Noncurante del rito mistico del pianista istituzionale, “ormai decaduto”, si presenta ai suoi recital in camicia a fiori fuori da pantaloni di colori sgargianti, zuccotto di lana, maglione e Rolex al polso.
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Non è dato conoscere in anteprima il programma che intende proporre neanche al teatro che lo ha scritturato. Sale sul palco, la gente applaude, piccolo cenno di saluto, alcune volte toglie il cappello, lo posa sul pomello del pianoforte e poi via. Che cosa accadrà in concerto è un mistero. Le sue esecuzioni possono durare ore. Dei brani scelti suona solo una parte, per il resto improvvisa: lunghe cadenze piazzate in ogni dove, sonorità violente, melodie suonate e canticchiate. È umorale nel carattere, ma lucido nella scelta di soluzioni impensabili. Ricerca ed esplorazione della partitura lo portano spesso a esecuzioni con tempi dilatati o accelerati, anche con scelte interpretative discutibili. Un artista controverso in lotta con buona parte della critica che lo accusa di aver buttato via una carriera prestigiosa.
Gulda non suona per il pubblico, ma a chi lo ascolta si dona in maniera unica, dialogando e talvolta assecondandone le richieste. Lo rende partecipe, battendo il tempo col piede sotto il pianoforte. Lo stupisce con interruzioni, commenti, apparizioni di ospiti improvvisi, omaggi floreali e aperitivi. Il recital non può più essere un’esperienza con una platea imbalsamata. Come lui, prima di lui, Glenn Gould, che da vent’anni non calca più le scene dedicandosi esclusivamente alla registrazione; Arturo Benedetti Michelangeli, che ha quasi smesso di esibirsi in pubblico, salvo per importantissime occasioni.
Benché presto annoiato e disilluso dal mondo del recital classico, Gulda non riesce mai ad abbandonare l’esecuzione e la registrazione dei classici. La sua incisione del Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach rappresenta ancora oggi un’interpretazione di riferimento. Un amore profondo lo lega anche a Mozart. Un rapporto duraturo ed eccellente, quasi una simbiosi, che darà vita a una iniziativa assolutamente nuova per l’epoca: eseguire in concerto l’integrale delle sue Sonate pianistiche. Anche la Scala ne accoglierà l’esecuzione in tre serate. Da quel momento le Sonate mozartiane, e altri integrali, iniziano a farsi largo nei programmi di sala.
«Un musicista fenomenale la cui prepotente statura musicale ricorda, per alcuni aspetti, quella di Leonard Bernstein», a giudizio dell’illustre musicologo Michele dall’Ongaro che tratteggia finemente il profilo del pianista: «La capacità di gettare lo sguardo oltre la musica classica, assimilando altre influenze, è il suo orizzonte ma anche il suo limite. La commistione tra classico e jazz (anche quello più sperimentale) trova un terreno comune con la competenza del pubblico. Le lusinghe del mondo delle avanguardie non interessano se non filtrate attraverso questa esperienza di contatto fisico diretto con il suono e soprattutto con il pianoforte, il vero strumento con cui Gulda esplora il mondo. Da questo punto di vista in alcuni momenti si può perdere la distinzione tra la musica che Gulda suona e improvvisa e Mozart, Bach, Beethoven o Liszt quasi che Gulda suoni queste musiche come se le stesse improvvisando in prima persona. Questa sicuramente la grandezza dell’interprete: la capacità di suonare la musica del passato come se fosse scritta lì sul momento.»
Il rapporto con Martha Argerich
«I discenti sono ossessionati dalla tecnica e fanno brutta musica». Gulda non ama l’insegnamento. Lui stesso per lunghi anni è stato autodidatta. Ma c’è un’eccezione: Martha Argerich. A ventisei anni, folgorato dal talento dalla pianista argentina tredicenne, la prende sotto la sua protezione. Tra i due nasce una complicità fortissima. Martha s’innamora del suo maestro, attratta dal carisma magnetico, dalla forza primordiale che emana il suo modo di fare musica e di intendere la vita. Il loro rapporto sarà quotidiano per un anno e mezzo finché lo stesso Gulda invita la Argerich ad andare via: «Con un maestro non si può restare per più di due anni» le dice. Ogni esecuzione in casa viene registrata, quindi riascoltata e giudicata insieme. Gulda riesce a penetrare l’animo della Argerich riuscendo a valorizzarne il precoce talento ed è fermamente convinto che debba suonare la musica jazz. Martha asseconda l’indicazione del maestro, ma con il tempo sente che quello non è il suo alveo e decide di continuare con il repertorio classico. «Trovava orribile che io avessi lasciato la musica jazz – ricorderà la pianista molti anni dopo – ma ormai era troppo tardi». Dopo la scomparsa del maestro Martha Argerich dirà: «È strano. So che Gulda è morto ma per me non lo è. Quando penso a lui sono avvolta da una carica di vitalità, di vita, di talento che me lo rende vivo». La Argerich per alcuni aspetti assomiglia molto a Gulda, «il quale le ha insegnato il rigore e la tecnica infallibile così come l’estrema facilità con cui ‘questa tecnica’ si manifesta, sempre legata ad un fatto musicale e mai ad un esercizio ginnico. La capacità comunicativa di dire sempre qualcosa. La musica non ha senso se non è ascoltata da qualcuno». Così Michele dall’Ongaro evidenzia il carattere comune del Maestro e dell’allieva: «La Argerich dà molto la sensazione di suonare per sé e non per il pubblico. L’idea che tutta la musica è contemporanea per chi l’ascolta: non c’è niente di scontato, ogni volta è una scoperta nuova e ogni esecuzione è una prima assoluta».
Una nuova vita musicale
Negli anni Sessanta inizia una nuova fase della vita musicale di Gulda con un interesse sempre più vivo per il Jazz, la composizione e la sperimentazione. «Non so se diventerò mai un pianista Jazz. So però che devo seguire il mio istinto». Nei suoi concerti iniziano ad apparire amplificatori, organi Hammond, cubiste. Mescola generi, ne propone di nuovi, porta nei teatri le melodie del repertorio dance accostate a riletture delle Nozze di Figaro. Sulla sua persona si abbatte un uragano: viene criticato duramente, molte volte deriso, non ascoltato e allontanato dagli ambienti accademici. Enrico Pieranunzi ci dice: «Gulda è un personaggio controverso perché la sua proposta musicale arriva troppo presto, direi quasi, nell’epoca sbagliata. Al tempo delle sue performance, le divisioni tra generi sono molto più nette di oggi e si è ben lontani dalla “globalizzazione linguistica” attuale. Gulda ricorda Oscar Peterson nel modo di suonare perché il suo pianismo unisce aspetti tecnici e meccanici provenienti dal pianismo classico. Mentre nella capacità di sintesi tra tradizione jazz e approccio “europeo” ricorda il francese Martial Solal talento un po’ sottovalutato nel nostro panorama musicale».
Delle critiche Gulda se ne frega e continua le sue stupende collaborazioni con pianisti del calibro di Chick Corea, Herbie Hancock e con vari gruppi come i Weather Report. «Gulda prosegue la grande tradizione tedesca iniziata da Schnabel e Backhaus, ma ha scelto di rifiutare la vita di clausura del virtuoso in favore di una carriera nella quale pone la stessa attenzione al jazz e alla musica classica, alla performance, alla composizione e all’improvvisazione», così Harold Charles Schonberg, sulle colonne del New York Times.
Nel 1998 il pianista austriaco arriva in Italia, tra Roma e Milano, per una serie di recital. Il teatro si trasforma in una discoteca. Sul palco avvenenti cubiste, il gran coda Steinway & Sons attorniato da amplificatori, due grosse pedane in evidenza, un grande schermo, la consolle del disc jockey. Gulda alterna un tempo della Sonata in re maggiore e una Fantasia di Mozart. Stravolge le partiture, passa alla tastiera elettronica di un Clavinova Yamaha dalle sonorità metalliche. Un efebo in abiti del Settecento si dimena sulla pedana di destra mentre Gulda al microfono spiega che «lo spirito di Mozart aleggia attorno a noi ma non vuole mostrarsi», sul video immagini evocano Amadeus. Qualcuno protesta, Gulda lo zittisce: «If you don’t enjoy, go home». Lui ha l’aria di divertirsi un mondo. Dal classico al rock, danzatori scatenati in scena, amplificazione assordante. In platea corre voce che dopo l’intervallo torni il classico. Macché. Gran parte del pubblico lascia la sala. Qualcuno chiede il rimborso del biglietto. Alla tastiera elettronica intanto Gulda suona un Minuetto di Mozart, poi la Marcia turca con pedale a effetto gran cassa, un po’ di Bach e poi si lascia andare all’improvvisazione. L’ombelico in vista delle ballerine catalizza gli sguardi tra folate di fumo. Gulda strimpella, canticchia, accenna passi di danza. Ammicca. Sorride. Gode. Nastri preregistrati a volumi assordanti. A mezzanotte invita il pubblico sul palco: «Nel rock Mozart risorge». I giovani si uniscono al ballo, non si sa se sia Mozart o il rock a sprigionare più carica sensuale ed erotica. A fine serata, solo in scena, nell’incredule silenzio generale, sullo Steinway suona, da dio, la Ninna nanna di Brahms. Gli gridano: «Torna presto!». Lui accenna un sorriso.
Nel 1999 trapela la voce della sua morte. Sgomento tra i fan. E invece compare in uno spettacolo a Salisburgo, intitolato Friedrich Gulda’s Resurrection Party. Triste presagio, invero, di quanto accadrà di lì a poco. Friedrich Gulda muore il 27 gennaio del 2000, all’età di sessantanove anni, stroncato da un infarto nella sua dimora austriaca. Ora anche la critica s’inginocchia di fronte a un gigante del pianismo contemporaneo, un uomo apparentemente guidato solo dal suo istinto che ama ricordare di non aver paura della morte: «So che dopo me ne andrò su una nuvoletta rosa a suonare il pianoforte accanto a Mozart, il maestro dei maestri, eternamente giovane».
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