Produzione semiscenica dell’opera-trattato: la lettura musicale ha il merito della buona volontà, con punta d’eccellenza nel baritono Mauro Borgioni
di Francesco Lora
OGNI NUOVA ESECUZIONE dell’Orfeo di Claudio Monteverdi è urgente e benvenuta: mai partitura d’opera è forse stata intesa, e più programmaticamente, come trattato esplicito di retorica musicale. Nelle edizioni a stampa secentesche (Venezia, Amadino, 1609 e 1615), qualcosa resta di enigmatico; ma sbaglia chi voglia accostarsi a questo lavoro protestando il suo diritto alla fantasia esecutiva: quanto più un musicista avrà indagato quelle carte, tanto più avrà compreso che tutto è scritto e che tutto pretende dall’esecutore, senza ammettere deviazioni dal dettato dell’autore. È una lezione. Rara da ascoltare: nel 2007, quattrocentesimo anniversario della prima rappresentazione, L’Orfeo ha goduto di almeno cinque produzioni italiane di rilievo; ma da allora a oggi, forse ve n’è stata una sola di notevole, alla Scala nel 2009, lasciando muto un titolo cardine del repertorio operistico.
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Si saluta dunque con favore, a priori, l’esecuzione data l’8 maggio nel Teatro Comunale di Ferrara. Non in forma scenica e non in forma concertistica, bensì in quella forma ibrida e svelta che, pur non disponendo di scene e costumi, stacca gli interpreti dai leggii e coordina tra loro un minimo di gesto. Funziona; la pulita mise en éspace di Marco Bellussi commette una sola ingenuità: proiettare sul fondo stringhe di testo verbale, le quali ineriscono al mito di Orfeo occhieggiando alla nostra contemporaneità, ma rimangono affatto estranee al dramma di Alessandro Striggio e al suo orizzonte culturale fissato da Monteverdi. Più frastagliato è il discorso sulla realizzazione musicale, dove il merito della buona volontà convive ora con la tentazione di strafare, ora con limiti naturali, tecnici, economici e soprattutto d’esperienza.
Il concertatore, Roberto Zarpellon, ha familiarità con Monteverdi; ne fa fede la sua lettura dei vespri mariani, data nel 2013 ai Frari di Venezia: soprassedendo a minuzie filologiche, la più vivida ascoltata in Italia nell’ultimo decennio. In questo Orfeo, egli dirige la medesima Orchestra da Camera “Lorenzo Da Ponte” e il coro Accademia dello Spirito Santo: lo scarso tempo di preparazione lascia irrisolti sfasamenti tra le parti e difetti d’intonazione nelle stesse; dagli organici, in compenso, emerge quell’italiana e verace naturalezza di pronuncia, timbri e fraseggio preclusa ai gruppi d’Oltralpe. Infastidisce invece la volontà d’incrementare la partitura, mediante la libera replica di passi, o anticipando fra le tre fanfare della Toccata un ritornello strumentale del Prologo: alle calcolate strutture di Monteverdi se ne sostituiscono così altre storicamente non contemplate.
La compagnia di canto cala l’asso degli assi nella parte eponima: come Orfeo, il baritono Mauro Borgioni non ha oggi l’eguale per fragrante inconfondibilità di timbro, varietà di colori e inflessioni, conoscenza dei tempi e dei vertici della parola e della frase musicale; in altre parole, è un cantante di rara forbitezza tecnica e nel contempo un ancor più erudito oratore, nella sillaba come nella nota. Al suo passo riesce a stare Marina De Liso, l’esperto mezzosoprano che qui tiene i cammei della Speranza e di Proserpina, sempre forte di lucido smalto, accento appassionato ed emissione rotonda. Tra tutti gli altri, si colgono pregi sparsi in timbri baciati dalla natura (il tenore Matteo Mezzaro come Pastore e Apollo), esuberanza attoriale (il mezzosoprano Luciana Mancini come Messaggiera) o ispirazione ed esattezza di diminuzioni (il soprano Sonia Tedla Chebreab come Musica): chi vivrà, vedrà.
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