Il ponderoso Trattato di armonia moderna e contemporanea scritto dal compositore con finalità didattica, di prossima pubblicazione: nuove prospettive storicistiche e analisi delle tecniche e delle teorie, da Bononcini a Partch, con e oltre Schönberg e Hauer. Ne abbiamo lungamente parlato con l’autore
di Marco Testa
ALBERTO COLLA, alessandrino, classe 1968, compositore e docente di composizione presso il Conservatorio di Sassari, è personalità dai vasti interessi, anche in ambito extramusicale. Tutto ciò non può che riflettersi pure sulla sua produzione, tanto nella sua veste di compositore che di teorico.
Proprio in questi mesi è in corso di stampa, per l’editore Carisch, il suo Trattato di armonia moderna e contemporanea. Si tratta dunque di un trattato o di un manuale? La domanda fa riferimento anche al fatto che nella nuova edizione italiana dell’ Harmonielehre di Schönberg, per i tipi de Il Saggiatore, si è preferito interpretare quel titolo non più come “manuale”, ma per l’appunto come “trattato”. Contestualmente, il suo lavoro come può essere inserito e catalogato? E quale l’elemento di novità che esso contiene?
«La mia opera indaga le tecniche compositive armoniche degli ultimi cento-centoventi anni. È un testo ponderoso e approfondito, di circa settecento pagine divise in due volumi. Per questo lo definisco Trattato. Innanzitutto è un lavoro che va a colmare un vuoto editoriale, vuoto quasi imbarazzante se si considera che pressoché tutti i manuali e trattati di armonia si limitano all’armonia tonale. Sono davvero pochi quelli che si spingono oltre: i più recenti arrivano a illustrare la dodecafonia schönberghiana o poco più, ma con falle spaventose per quanto riguarda innumerevoli tecniche, dimenticate se non persino ostracizzate perché non in linea con le “mode del momento”.
Perché gli accadimenti armonici si sono sviluppati proprio in quel modo? Perché i compositori hanno compiuto specifiche ricerche? A quali risultati sono approdati? Dove si trovano eventuali punti d’incontro? Queste e molte altre sono le domande da soddisfare. Possiamo riscontrare similarità tra autori che nemmeno si conoscevano, come nel caso del milanese Roberto Lupi e dello statunitense Harry Partch
Spesso si parla di armonia ragionando per dogmi e tralasciando cause ed effetti ben più importanti. Manca poi una visione d’insieme, una teoria unificatrice. Il rischio è, insomma, quello di parcellizzare e non sviscerare l’argomento, concentrandosi su pochi aspetti accademici a discapito dei molti argomenti desumibili dal repertorio e dagli scritti speculativi originali dei compositori. Buona parte delle teorie da me trattate sono state rispolverate dall’oblìo. Lo sforzo più grande è stato quello di raccoglierle e salvarle dall’estinzione.»
Il Trattato aspira a essere uno strumento utile per i musicisti, oltre che per gli studenti di composizione.
«Sono convinto che questo lavoro possa costituire un riferimento utile sia per i compositori che per gli esecutori, anche perché non avrebbero molti altri riferimenti: lo ribadisco, non conosco null’altro di simile nell’attuale panorama editoriale. Lo scorso anno in Francia è uscito un testo musicologico enciclopedico che raccoglie saggi di una sessantina di autori e che tratta tematiche affini, ma è altra cosa e non si propone una finalità didattica. Il lavoro francese presenta inoltre il rischio di fornire un puzzle di interventi relativamente poco correlati tra loro, a discapito di una visione complessiva coerente, mentre ben diverso è tentare una simile impresa da soli, cercando di tendere a un’unità, provando a dare delle risposte: insomma, perché gli accadimenti armonici si sono sviluppati proprio in quel modo? Perché i compositori hanno compiuto specifiche ricerche? A quali risultati sono approdati? Dove si trovano eventuali punti d’incontro? Queste e molte altre sono le domande da soddisfare. Possiamo riscontrare similarità tra autori che nemmeno si conoscevano, come nel caso del milanese Roberto Lupi e dello statunitense Harry Partch. Lupi e Partch hanno creato strutture molto simili, gravitando su concetti analoghi e producendo due teorie datate pressoché lo stesso anno nonostante si trovassero l’uno in California, l’altro in Italia. E come loro altri: la dodecafonia non è nata solo con Schönberg, ci sono stati almeno quattro autori (tra cui Hauer) che in quegli anni hanno cercato di risolvere lo stesso problema in modo diverso. Le tecniche haueriane sono molto più efficaci di quelle schönberghiane, eppure misconosciute. E che dire dello spettralismo contemporaneo di Tenney negli Stati Uniti e di Grisey in Francia? A volte i concetti musicali passano oltre la coscienza delle persone, oltre la storia, per riemergere in modo inaspettato, anche contemporaneamente e in luoghi lontani. Ed ecco che due compositori che neppure si conoscono scrivono lo stesso tema o, appunto, due teorici ignari l’uno dell’esistenza dell’altro elaborano una dottrina analoga.»
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Certe tematiche che vengono approfondite nel Trattato sono in parte già illustrate, certo con un “peso” e finalità differenti, nel primo volume del suo Manuale di armonia, pubblicato sempre dalla Carisch. Anche qui si respira comunque un’intenzione trattatistica.
«Non m’interessava realizzare l’ennesimo manuale d’armonia. Perciò quando l’ho scritto ho cercato una prospettiva nuova: l’obiettivo che mi proponevo era quello di fornire delle risposte attraverso un approccio storico-antropologico, acustico-psicoacustico, trasversale e totalmente diverso.»
D’altra parte emerge anche una necessità strettamente didattica.
«Penso che qualsiasi trattato di tipo costrittivo e prescrittivo sia rischioso: può mortificare l’allievo e le sue composizioni. È vero che parliamo pur sempre di un sistema usato per molto tempo e da cui sono nati ugualmente grandi compositori. Ma c’è da chiedersi se i compositori siano diventati grandi ‘grazie’ o ‘nonostante’ le costrizioni. Sono dunque convinto della necessità di rivedere il metodo d’insegnamento offrendo maggiori spiegazioni, facendo comprendere perché sono nati determinati accordi, o perché il tutto si sia formato proprio in quell’ordine. L’armonia è evoluzione. Non è un caso che abbia sottotitolato il Manuale di armonia “l’evoluzione dominante”: è la storia dell’applicazione delle parziali armoniche e delle simmetrie sull’accordo di dominante.»
Tornando al Trattato di armonia moderna e contemporanea, come mai in un’opera che indaga le tecniche armoniche del secolo passato viene dedicata una intera sezione a Giovanni Maria Bononcini, l’autore secentesco dello scritto intitolato Musico prattico?
«Perché un autore del Novecento, Ziehn [Colla si riferisce al teorico tedesco Bernhard Ziehn, 1845-1912, ndr] nel 1911 parte da un principio analogo a quello di Bononcini. Ecco che la storia non è mai chiusa, a comparti stagni, ma al contrario certifica la continua interazione tra autori lontani nel tempo ma magari vicini negli intenti. E gli intenti di Bononcini a livello modale erano esattamente gli stessi di Ziehn a livello cromatico e tonale.»
Prima faceva riferimento al fatto che destinatari del suo Trattato saranno non solo i compositori ma anche gli esecutori. C’è il rischio che questi ultimi si trovino in imbarazzo davanti alla comprensione di un brano di Hindemith o di Webern?
«È chiaro che un’esecuzione limitata alla pura decifrazione della notazione o con un’interpretazione troppo personale potrebbe esprimere un’intenzione non necessariamente congrua rispetto all’idea del compositore (d’altra parte se le idee nascono dal compositore è anche giusto che queste vengano rispettate). È possibile poi stravolgere una composizione attraverso un’interpretazione del tutto errata. Nondimeno vi sono casi emblematici di compositori incapaci di riconoscere errori d’esecuzione. È invece evidente che, qualora vi sia piena consapevolezza di ogni elemento che compone il brano, ci si possa accorgere di una nota sbagliata in mezzo a un’orchestra di 120 elementi o anche più. Saranno poi gli esecutori stessi, in quei casi, a comprendere, magari anche con un certo imbarazzo, come ciò con cui hanno a che fare non sia frutto di stranezze, ma di profondo ragionamento musicale.»
Soffermandoci ancora un momento sul Colla eminentemente teorico, ci vuole spiegare, per quanto possibile in poche parole, in che cosa consiste il procedimento della Concinnitas, che lei stesso ha ideato e adopera nelle sue composizioni?
«Sono convinto che i nostri siano tempi di sintesi. Oggi disponiamo di un enorme patrimonio che è necessario studiare; occorre comprendere ogni dettaglio delle tecniche di ogni autore, perlomeno di coloro che avevano ideato teorie peculiari (perché naturalmente ciò non sempre avveniva). Nel corso del Novecento si sono formati sostanzialmente due filoni: il primo segue le speculazioni legate alle serie delle armoniche, l’altro segue invece soprattutto le simmetrie. Ora, questi elementi convivevano già nella tonalità, perché nella tonalità abbiamo sia armonie legate alla serie delle armoniche che armonie legate alle simmetrie (sin da quando ci fu il fenomeno del temperamento). Un po’ più avanti nel tempo, all’epoca di Skrjabin e Debussy, accade qualcos’altro. Skrjabin, nell’ultimo periodo della sua vita, arriva a esasperare l’aspetto simmetrico della teoria musicale, e da qui sviluppa una vero e proprio principio, deducibile dagli ultimi lavori; dall’altro lato abbiamo invece autori come Debussy o Ravel che lavorano sulla sovrapposizione di armoniche sempre più alte (quindi la nona per Debussy, Ravel con l’undicesima eccedente e così via). Sta di fatto che come conseguenza di questa scissione nel Novecento si sono creati due binari che quasi mai sono venuti a incontrarsi se non nei casi in cui vi erano, o vi sono, autori interessati sia alla simmetria che all’armonia naturale.»
La qual cosa ha pure prodotto scuole antitetiche.
«Due scuole in parte antitetiche, a volte invece complementari e capaci di dialogare, ma spesso, in effetti, in contrasto. A tutto questo ci sarebbero da aggiungere coloro che si limitano a una pura ricerca astratta, un tipo di indagine scientista che può andar benissimo come ingegneria del suono, ma la Musica rimane comunque un’altra cosa.»
Torniamo alla Concinnitas.
«Oggi, dicevo all’inizio, è tempo di sintesi. La questione è: i due universi sopra descritti possono convivere? Può esistere una teoria in grado di riunire i due campi, ricongiungere i due binari? Credo che una risposta possa risiedere proprio nella Concinnitas, concetto già classico che indica appunto armonia e simmetria. L’idea primaria in realtà nasce già con il precedentemente citato Roberto Lupi, autore, nel 1946, di un fondamentale libricino intitolato Armonia di gravitazione. A conti fatti la Concinnitas è l’uso coerente di qualsiasi insieme di note, anche simmetrico, secondo ordine di affinità acustica, sia nel campo temperato che microtonale naturale.»
Il procedimento armonico della Concinnitas può essere tacciabile di tonalismo?
«Per fortuna si! Ma è anche tacciabile di dodecafonismo (non solo schönbergiano ma anche haueriano), di serialimo stravinskijano, di spettralismo e di molte altre cose approfondite nei miei trattati… Ma forse, soprattutto, è tacciabile di ‘naturalismo’.»
Quindi per lei tonalismo non è una parolaccia, come al giorno d’oggi parrebbe essere in altri ambienti, anche tra docenti e studenti di composizione dei nostri conservatori, non solo in Italia. Un tema attuale, si direbbe.
«La tonalità rientra nell’ambito della Concinnitas, che con la sua struttura può sorreggere sincretismi fra tecniche apparentemente molto diverse. Credo che non dobbiamo tanto porci il problema (o l’obiettivo) del ritorno alla tonalità, quanto, piuttosto, ripercorrere eventualmente i nostri passi su un nuovo livello, così come si è sempre fatto nella storia dell’uomo (errori compresi). Io percepisco l’esperienza umana come una sorta di spirale: non una linea retta, ma una linea curva che torna continuamente su sé stessa incedendo nel tempo, proprio come la spirale dell’orbita terrestre intorno al Sole combinata al movimento di quest’ultimo nella Via Lattea. La musica non sfugge a queste considerazioni. Quando sento criticare un musicista come Arvo Pärt in quanto, dicono, compositore di musica medievale se non addirittura tonale, mi verrebbe da rispondere: cerchiamo innanzitutto di capire come scrive. Pärt impiega una tecnica innovativa, chiara, precisa e strutturalista, con risultati estetici altissimi.»
Insomma, estremizzando un po’ si potrebbe dire che siccome piace viene tacciata di banalità.
«Si. E ribadisco: occorre veramente indagare nel dettaglio la musica di Pärt; non vi è una nota nei suoi lavori, che si possa sostituire con un’altra. Egli ha studiato approfonditamente la musica dell’Occidente medievale, ha recuperato il passato guardando avanti, trovando uno spiraglio d’azione che era sfuggito a tutti: il Tintinnabuli, divenuto poi un intero universo»
Si tratta oltretutto di un’operazione forse non troppo dissimile, in sostanza, a ciò che per esempio Stravinskij compie della sua Messa, dove il sapore e anzi la struttura modale, accompagnata da un’atmosfera che riporta in certi casi alla cantillatio gregoriana, emerge già nel Kyrie. Il che è ben diverso dal plagio storico. Certo, se ci si trovasse al cospetto, nel centro della propria città, di una chiesa costruita ex novo in stile barocco, lo si potrebbe reputare alquanto bizzarro.
«E invece Gaudì, ad esempio, è stato capace di tornare indietro nella storia, al gotico, guardando avanti. Ed è questo che a me interessa. È giusto attingere dal passato secondo una luce nuova, perché nel corso del tempo la prospettiva stessa sarà cambiata. Il problema non è la triade, ma come e dove la impiego. Non deve preoccupare il ‘ricordarsi’, piuttosto il ‘dimenticarsi’. L’operazione di Pärt è completamente diversa da quella di Stravinskij, ma il confronto con la storia è in entrambi evidente. E per me la Concinnitas è risorsa primaria per realizzare sincretismi altrimenti impossibili, un modo per accorciare, corrugare la storia e averla tutta a disposizione dentro la tecnica.»
Nel 2002, a Los Angeles, conobbe il pianista Intervista a Gianluca Cascioli. In quell’occasione Cascioli suonò un concerto di Mozart, mentre nella stessa serata vennero eseguite le sue Rovine di Palmira, sulle quali torneremo. Nel corso del tempo tra voi due è sorta un’amicizia che è poi diventata un binomio indissolubile, un sodalizio che dura oramai da diverso tempo.
«Io e Cascioli abbiamo iniziato a ragionare di musica insieme subito dopo esserci conosciuti. Lui è estremamente entusiasta e curioso, si è subito interessato a tutte le tecniche che impiegavo in composizione, così come io mi sono interessato alle sue modalità interpretative. Certamente abbiamo trovato innumerevoli punti in comune che ci hanno portato a lavorare insieme su diversi fronti in un reciproco accrescimento.»
Insomma una sensibilità simile.
«Direi di sì. Per me lavorare con un grande interprete come lui è una risorsa inestimabile. È uno dei maggiori pianisti al mondo. Mai pago di informazioni e sempre alla ricerca dei più piccoli dettagli. Perennemente insoddisfatto e in costante crescita. Ha la capacità di mettersi continuamente in discussione e la volontà di affrontare e comprendere ogni più piccola sfumatura dell’intenzione dell’autore. Lavoriamo sui miei brani passo per passo. E l’esecuzione finale è proprio come l’avevo concepita e immaginata. Corrispondenza assai rara.»
D’altro canto Cascioli, compositore egli stesso, ha utilizzato la Concinnitas in alcuni suoi brani.
«L’ha utilizzata, anche se in modo diverso da come la adopero io. Il bello di questa teoria è che dà la possibilità di esprimersi in diverse direzioni. Non incide sullo stile, bensì offre delle opportunità tecniche, ed è quello che serve!»
Cosa pensa della cesura avvenuta tra compositore e pubblico a partire dal primo Novecento?
«Temo che sia irreversibile, perché è passato troppo tempo e gli spazi d’azione sono stati colmati. Una cosa che forse i compositori di oggi non riescono bene a focalizzare è che, per la maggior parte dei casi, non sono considerati da nessuno, la loro musica non interessa a nessuno se non ad altri compositori, a studenti di composizione, eventualmente a qualche appassionato sorretto da specifiche conoscenze. È una situazione piuttosto triste, ma la realtà è questa. E in questo contesto tragico si ha il coraggio di attaccare musicisti come Pärt o Silvestrov, che sono forse l’ultima nostra speranza.»
Non senza ragione negli ultimi anni della sua vita Schönberg espresse il timore di essere ricordato più come teorico che come musicista. La progressiva dissoluzione della tonalità avrà agito significativamente in questa rottura?
«In realtà la tonalità s’irradia in tutto il Novecento, continuando fino a oggi. Più che dissolta, la tonalità si è espansa. Lo spettralismo e la ricerca timbrica, in certo qual modo, sono tonalità. Se poi per tonalità intendessimo sempre e solo il rapporto tra funzioni, quindi sottodominante, dominante e tonica, allora dovremmo ricondurla a un periodo storico ben preciso e apparentemente breve. Ma a mio parere nella storia della Musica vi sono parecchi fraintendimenti. A ben vedere possiamo andare a ritroso fino al 1100, perché nel Gymel erano insite le funzioni tonali come note differenziali delle terze impiegate nella modalità. Questo, lo rimarco, già nel 1100. Non è l’espansione della tonalità ad aver incrinato il rapporto tra compositore e pubblico, piuttosto la sua sostituzione con tecniche, spesso di derivazione ‘scientista’ o extramusicale, per nulla valide.»
Al suo attivo lei vanta più di 120 composizioni. Tra le tante che hanno ottenuto un certo riscontro è Starlights. Quanto deve, per questo brano, ai Planets di Holst?
«Indubbiamente Holst è un autore che ho sempre molto apprezzato. In Starlights, composizione monotematica (direi un po’ l’opposto della Terza Sinfonia, dove vi è una condensazione estrema del materiale e una sorta di ipertematicità), l’idea è quella di creare un poema sinfonico, quindi una forma assai in voga tra Otto e Novecento, sulla nascita, vita e morte di una stella. È chiaro come l’idea di fondo sia legata allo spazio, ma è una metafora della vita stessa. Ho voluto trasformare tutto questo in musica non tanto per un intento meramente descrittivo, quanto per cercare d’instillare delle impressioni che nascono anche dalla possibilità oggettiva che abbiamo oggi di poter vedere, per mezzo di un telescopio spaziale ad esempio, una realtà altrimenti soltanto teorica. Le esplosioni cosmiche si traducono in vere e proprie esplosioni di suoni. E i milioni di anni di vita di una stella vengono condensati in una ventina di minuti»
Parliamo oltretutto di un brano eseguito con una certa frequenza.
«Starlights è stato eseguito varie volte, l’ultima delle quali a Torino dall’Orchestra Sinfonica della Rai. In quel frangente è avvenuto un fatto che ricordo con estremo piacere: dopo l’esecuzione giunse alla Rai un sms con un commento da parte di un ascoltatore (probabilmente uno dei commenti che più mi hanno colpito nella mia intera vicenda musicale). Il messaggio recitava: “‘Io sono cieco, ma grazie a questa musica per la prima volta ho potuto vedere il cielo stellato. Adesso so com’è”. Il mio obiettivo era effettivamente quello di tramutare un aspetto visivo, nonché conoscitivo e teorico, in suoni. Se poi il risultato è un commento di quel tipo, un commento che a pensarci bene carica di non poche responsabilità, significa che il cerchio in qualche modo si è compiuto.»
Parlavamo prima di Starlights come poema sinfonico, genere che ha già esplorato in un’altra composizione che ha avuto un certo riscontro, Le rovine di Palmira. Ha a che fare questa con le vicende relative alla regina Zenobia, che nel III secolo sfidò il potere di Roma per poi essere sconfitta sotto l’imperatore Aureliano?
«In realtà si rifà alle vicende tramandate nell’epopea letteraria relativa alla vita leggendaria dell’eroe e poeta arabo Antar (il concorso stesso al quale partecipai richiedeva esplicitamente un brano che fosse legato a tali vicende). Per questo motivo, oltre a modi e ritmi arabi, impiego una citazione dalla seconda sinfonia Antar di Rimsky-Korsakov»
Lei sembra piuttosto attratto dalle tematiche d’ordine storico e mitologico.
«Certamente, ma in realtà sono ancor più legato ai richiami dell’etnomusicologia: ho studiato la musica e i sistemi musicali degli indiani d’America, dei pigmei della fascia equatoriale, dell’India e dei paesi arabi e orientali, ma anche la tradizione popolare italiana, in particolare della Sardegna. Tutto questo mi ha offerto maggior consapevolezza di ciò che è stata la storia occidentale. Ritrovare elementi analoghi in paesi lontani mi ha fatto molto riflettere su come il tutto sia comandato sempre dall’accordo di natura.»
Non ritiene che in questo siano più decisivi fattori culturali che naturali?
«I fattori culturali a mio avviso sono secondari, in quanto nascono sulla natura; è il luogo che incide sulla cultura, la cultura è così perché è nata lì. I Wabali africani cantano degli organa. Com’è possibile? Si tratta di un’evoluzione naturale spontanea con un ordine preciso e universale che, a seconda dei paesaggi sonori, e delle risorse naturali si ferma o procede verso nuove direzioni.»
Per i suoi brani ha attinto anche dalla letteratura, come nel caso del Processo, dal nome di uno dei romanzi più noti dello scrittore ceco più celebre. L’opera le valse la vittoria a un concorso internazionale indetto in occasione del centenario dalla nascita di Giuseppe Verdi, nel 2001, la qual cosa le procurò maggior notorierà in Italia, anche perché come spesso avviene lei era (e forse lo è ancora) noto più all’estero che nel nostro paese. A cosa attribuisce questo fenomeno?
«Effettivamente spesso realizzo le cose principali all’estero. La verità è che fuori dall’Italia gli artisti italiani sono apprezzati, spesso visti con occhio di riguardo per la tecnica solida e per la storia invidiabile che hanno alle spalle. Tutto questo mentre gli italiani stessi sono esterofili: se v’è qualcosa da fare viene chiamato un autore straniero; è un peccato perché in questo modo si rischia di perdere l’identità della scuola italiana di composizione, che ha la storia che tutti conosciamo. Ancora nel Novecento essa ha condotto a grandi risultati nonostante, ahimè, abbia spinto ad andare all’estero molti autori che poi sono ritornati più francesi, più tedeschi o più americani che italiani. Tutto ciò ci sta facendo perdere la nostra identità. Una delle lotte che tento di portare a compimento dando maggior fiducia anche ai giovani compositori italiani consiste in un tentativo di rinnovamento della scuola di composizione italiana, in modo tale che quegli stessi giovani non debbano necessariamente andare all’estero per poter ricevere una qualche conferma.»
Insomma il suo operato è pure rivolto a una sorta di rivitalizzazione dell’italianità in Italia.
«Cerco di mantenere la mia italianità in tutti i miei lavori. Sento davvero sulle spalle il carico della tradizione italiana, lo avverto. Sento i miei maestri, i maestri dei miei maestri. Percepisco sempre attuale l’insegnamento di Carlo Mosso, un grande compositore ancora da riscoprire, quindi di Gian Francesco Malipiero, suo amico, e della generazione dell’Ottanta, mentre dall’altra parte le lezioni magistrali di Azio Corghi, quindi di Bruno Bettinelli e tutta la sua scuola. Indirettamente mi sono arrivati così gli insegnamenti di Petrassi, ma anche di Berio, Clementi e Donatoni.»
Ironia della sorte, La Stampa l’ha definita un wagneriano…
«Il quotidiano torinese scrisse così dopo un’esecuzione del Processo. Il che ha senso in quanto effettivamente avevo scritto io il libretto, avevo lavorato anche al progetto delle scene, delle luci ecc., in ultima analisi avevo una visione d’opera totale… [Gesamtkunstwerk nella visione wagneriana, ndr] dove tutte le arti tendono a confluire, cosa che emerge anche in lavori successivi come ad esempio Resurrexi. Detto questo la mia scuola di appartenenza è profondamente italiana. Non ho mai voluto andare all’estero a studiare, mi sono sempre rifiutato, nonostante i consigli da parte di diverse persone. Un po’ di amore in più verso la nostra tradizione è necessario.»
Vuole dirci qualcosa sui suoi progetti futuri o imminenti, lavori teorici a parte?
«Il 12 giugno Cascioli eseguirà in Giappone il mio settimo notturno (proprio a lui dedicato), brano ipertematico come in genere lo sono i miei ultimi lavori. Inoltre sto cominciando a comporre un brano commissionatomi da Radio France.»
Di cosa si tratta?
«Di un lavoro orchestrale per il Festival Présence 2016, verrà diretto dallo strepitoso Enrique Mazzola, uno dei direttori a me più cari. Fu lui a dirigere il Processo e a eseguire innumerevoli prime mondiali di miei lavori sinfonici. Ma è bene non parlare troppo dei progetti musicali, altrimenti le idee non si condensano in suoni e scivolano via…»
Lei colleziona minerali, fossili, libri e manoscritti musicali antichi; inoltre, dipinge: ci piacerebbe concludere con due parole sul Colla pittore.
«Quando compongo sento anche in qualche modo di dipingere (e viceversa). Effettivamente percepisco chiaramente delle sinestesie: vedo i suoni e sento i colori. C’è stato un solo periodo, nell’arco della mia vita, durante una fase piuttosto difficile, in cui ho avvertito più la necessità di dipingere che non di comporre. In quel momento la musica non mi bastava più per esprimere quello che avevo dentro, ed effettivamente ho realizzato anche molti lavori di tipo pittorico. In una tela rappresentai una persona rosso sangue rannicchiata a terra, che si copriva la testa urlando, e dei grattacieli che minacciavano di caderle addosso. Sentivo quell’immagine nell’aria. Quando terminai l’ultima pennellata mi telefonò un amico col quale ero stato a New York pochi mesi prima per un concerto con la Julliard Symphony. Mi disse, molto turbato: “accendi subito la televisione, stanno crollando le Twin Towers”.»
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